Attenzione: questo Ë un vecchio file, che conteneva la terza e ultima parte dell'articolo di Parin che era diviso in tre parti, successivamente accorpate alla prima. Torna quindi all'indirizzo: http://www.pol-it.org//ital/riviste/psicouman/parin99.htm Psicoterapia e Scienze Umane, 1999, XXXIII, 2: 5-30
Osservazioni
etnologiche sul problema dei diritti universali dell'uomo
L'assunto
di fondo dell'etnologia (anthropology) è che l'uomo è
un essere sociale. Tutte le culture (cultures) studiate
dall'etologia, per quanto si differenzino nello spazio e nel tempo,
si fondano sulla capacità dell'uomo di organizzare e regolare
la convivenza con i propri simili. Diverse ipotesi fanno derivare lo
sviluppo del genere umano, la sua evoluzione e separazione dalle
grandi scimmie (i primati) da una fase determinata dell'evoluzione:
l'andatura eretta, l'uso di utensili, l'acquisizione del linguaggio,
e altro ancora. A me sembra che il momento decisivo dell'evoluzione
che ha portato alla formazione dell'essere umano consista nel fatto
che la convivenza con i propri simili è stata determinata non
dall'istinto e dalla sua configurazione (provocata da stimoli,
imprinting, processi di apprendimento, etc.), bensì da
tradizioni culturali, per lo più trasmesse e modificate,
rispettivamente, per mezzo di sistemi simbolici, e adattate alle
condizioni naturali. Naturalmente l'uomo non può produrre
niente se gli manca la dotazione genetica. La molteplicità
delle più diverse strutture sociali (cultures)
testimonia della capacità di adattamento dell'uomo alle
condizioni climatiche, geografiche, etc. D'altro canto nelle più
diverse culture sviluppatesi nella storia sono documentabili modelli
di comportamento (patterns of culture) analoghi o persino
simili, che si possono, a mio avviso, mettere in evidenza
analiticamente nella molteplicità di situazioni, compiti,
istituzioni e tradizioni.
La
mia tesi è che i diritti universali dell'uomo, in quanto
presupposto e compito della vita nella società (gruppo), sono
ubiquitari, vale a dire che essi sono presenti in nuce e
documentabili ovunque. Al primo e anche al secondo sguardo non lo si
supporrebbe. Al contrario. Tutte le culture che oggi conosciamo sono
organizzate in maniera da assicurare gli adattamenti all'ambiente
naturale e a quello umano circostante. Se così non fosse, esse
sarebbero da tempo scomparse, come per esempio gli Etruschi, che
hanno lasciato ricche tracce della loro cultura, o i Celti in Europa,
o i Telem nella regione del Dogon (Mali), le cui tombe sono le esigue
testimonianze rimaste di culture «tramontate». Ogni
giorno siamo testimoni del fatto che interi popoli, con il proprio
territorio, la propria lingua e le proprie specifiche istituzioni,
perdono la propria natura; alcuni popoli si estinguono fisicamente,
altri si disperdono in popoli più forti nella capacità
di sopravvivenza, altri ancora lasciano esigue testimonianze, per
esempio modificando in parte le istituzioni tradizionali dei popoli
che li hanno sottomessi, assorbiti, o che sono loro subentrati.
Sembra quasi che tutti quei popoli che si sono dimostrati vitali e
ben delimitati, si comportino come se ignorassero i diritti
universali dell'uomo, figurarsi poi se li rispettano. Tali popoli
sono paragonati all'egoista che impone i propri interessi in maniera
«utilitaristica» contro gli altri, senza tenere alcun
conto dei propri congiunti, vicini o amici. La regola di Darwin con
cui si spiega lo sviluppo evoluzionistico delle specie animali, fino
alla varietà differenziata, the survival of the fittest,
è stata estesa alla vita sociale, riadattata e riorganizzata
nella teoria del darwinismo sociale. In questa ideologia, che
riprende la teoria dell'evoluzione per lo più con la formula
erroneamente tradotta della «sopravvivenza del più
forte» sono riassunti spiegazioni e modelli di
legittimazione che a un'osservazione superficiale mostrano una certa
evidenza. Se tuttavia le istituzioni e i modelli spiegati con il
darwinismo sociale si esaminano in maniera più approfondita,
si nota che essi mancano di quel valore chiarificatore che ha,
invece, la teoria biologica dell'evoluzione. Si ha la netta
impressione che tale ideologia non abbia altro scopo che quello di
legittimare i fenomeni sociali che violano i diritti universali
dell'uomo. A che scopo, mi chiedo, tale dispendio di propaganda,
demagogia e falsificazione, se i diritti universali dell'uomo non
avessero un peso nell'organizzazione della vita sociale?
Nell'ambito
di questo contributo non è possibile analizzare, sotto questo
aspetto, le istituzioni di tutte le strutture sociali del presente e
del passato, per stabilire se in esse sia documentabile, in maniera
esplicita o implicita, l'azione dei diritti universali dell'uomo. La
mia tesi potrebbe essere dimostrata solo con un'esposizione completa
e sistematica. Con i seguenti esempi, non voglio dimostrare nulla, ma
mostrare semplicemente delle istituzioni particolarmente evidenti,
che possono essere esaminate alla luce di due opposte tendenze: una
che induce al rispetto dei diritti dell'uomo, l'altra che invece li
delimita, li disconosce o sopprime. Questo metodo si può
definire dialettico. Bisogna accettare il fatto che gli esempi scelti
saranno illustrati al di fuori del loro contesto storico o di altra
natura, estrapolati per così dire dal contesto culturale, e
raggruppati solo in relazione a un determinato diritto dell'uomo,
valido a livello universale.
Una
corrente di ricerca etnologica classifica tutte le culture conosciute
secondo il rapporto che esse hanno con l'idea di giustizia. Questo
procedimento può essere utile a inquadrare in un ordine
sistematico tutte le culture finora descritte; tale procedimento è
simile a quello che intendo seguire. Si considera un'idea immanente,
l'idea di giustizia, senza esaminarne all'inizio l'origine, la
formazione, lo scopo e la dinamica. Il diritto alla vita sembra
essere riconosciuto in tutte le culture. Dare la morte può
essere ammesso solo in condizioni particolari. Là dove si è
sviluppato il diritto penale, soltanto questo ha il privilegio di
dare la morte per l'espiazione di un delitto. Sigmund Freud (1913) ha
fatto notare a suo tempo che la condanna capitale pronunziata da un
tribunale consente di soddisfare il bisogno di vendetta della
società. Nelle culture che non conoscono il diritto penale, ma
la «giustizia distributiva», come ad esempio presso gli
Akan, popoli dell'Africa occidentale, l'omicidio volontario o
l'assassinio deve essere in qualche modo risarcito ai parenti
dell'ucciso, la perdita deve essere pareggiata. L'entità del
risarcimento non dipende dai motivi dell'assassinio, ma viene
stabilita da coloro che hanno subito la perdita, dalla gravità
che le attribuiscono, da quanto ne debbano soffrire. Gli stessi
popoli Akan (e molti altri) attribuiscono ogni morte violenta, ma
anche i casi di morte per vecchiaia e malattia, quasi senza
eccezione, alla magia nera e a influssi immateriali negativi, che
provengono dai vivi (streghe, maghi) o dagli spiriti dei defunti.
Perciò le violazioni del diritto alla vita sono sottoposte a
un sistema che, in linea di principio, permette delle contromisure
(magia bianca, e così via).
La
molteplicità delle cerimonie e procedure di purificazione in
tutte, o quasi tutte, le culture mostra che coloro che hanno ucciso,
per poter tornare a vivere tra i propri simili, devono essere
ritrasformati in «veri e propri» membri della società.
È noto che nei popoli «animistici», con sistemi
magici di pensiero, ogni uccisione, anche quella delle prede, persino
quella degli alberi, richiede una riparazione, una purificazione. Là
dove sviluppati ordinamenti giuridici e leggi di guerra che regolano
il diritto di dare la morte, sembrano rendere superfluo il principio
cardine dei diritti universali dell'uomo, il diritto alla vita, resta
comunque la stigmatizzazione di colui che dà la morte: si
pensi ad esempio alla condizione di proscritto del boia. Tutte le
religioni hanno istituzioni che hanno il compito di trattare
l'ingiustizia della soppressione della vita: suppliche per ricevere
il perdono o la grazia, classificazione secondo un principio
superiore che dia legittimazione (crociate contro i pagani, caccia
alle streghe, agli eretici, e così via) e infine i più
svariati dogmi per poter attribuire l'omicidio al volere di Dio, al
destino predeterminato (Kismet), alla vendetta degli dei o ad altre
istanze indipendenti dall'uomo che dà la morte. Persino il
rapporto più illuminato con la morte reca le tracce di una
magia che deve mitigare l'oltraggio dell'uccidere. Anche tra noi è
valido il detto: «De mortuis nil nisi bene».
L'istituzione di duelli tra maschi è presente in molte
culture tradizionali. Quali possano essere i fondamenti ideologici
l'imposizione di un ordine gerarchico, il concetto di onore e di
offesa all'onore essi sono, senza alcuna eccezione,
rigidamente ritualizzati: dal duello cavalleresco, al duello degli
stati cristiani dell'età moderna fino ai combattimenti
sportivi di pugilato dei nostri tempi. L'interpretazione psicologica
era che la società metteva a disposizione dell'inevitabile
aggressività e rivalità dei giovani maschi della stessa
cultura, ceto o subcultura, un sistema di regole che ne consentisse
lo sfogo. Tutti i rituali, pur nella loro varietà, dispongono
di regole «leali» che devono impedire, possibilmente,
l'assassinio dell'avversario.
Sebbene
non mi addentri in questo contributo nei conflitti tra stati che
danno luogo al diritto internazionale o al diritto di guerra,
desidero menzionare una forma di guerra fra tribù confinanti,
le guerre finte, mock battles, un'istituzione delle tribù
montane che vivono nelle vallate dell'altopiano della Papua Nuova
Guinea. Con un ritmo determinato dai rituali si svolgono delle vere e
proprie guerre concordate. I giovani vengono agghindati, armati di
armi da guerra e preparati spiritualmente al combattimento. Le
battaglie sono combattute con forza e astuzia. Appena però un
guerriero viene ucciso o gravemente ferito, la guerra si interrompe.
Entrambe le parti si ritirano e piangono lo spargimento di sangue
finché non arriva il momento di combattere un'altra battaglia.
Né
i conflitti per il possesso del territorio, di beni o donne, né
altri conflitti di interessi, sembrano provocare le guerre finte. Si
tratta piuttosto di prestigio, di autorappresentazione e
dell'esercizio della forza di combattimento. In ogni caso viene
garantito periodicamente lo sfogo dell'aggressività dei
giovani maschi. Il rispetto della regola di risparmiare la vita, il
diritto universale dell'uomo alla vita, sembra affermarsi nonostante
il pieno scatenamento della combattività e del coraggio. I
Jivaro, una tribù della foresta vergine dell'Amazzonia
peruviana, sono «cacciatori di teste». Il loro chiuso
mondo di regole magiche è così lontano per noi che non
corriamo il pericolo di giudicare il loro comportamento secondo la
nostra morale eurocentrica. Per diventare adulti, gli adolescenti dei
Jivaro devono uccidere un uomo di un popolo confinante e portarne via
la testa. Quanto più in vista e ricca di esperienza è
la vittima, tanto più la sua testa giova al cacciatore che
riesca nell'intento; perciò la testa di un anziano è il
bersaglio più ambito di un assassino rituale. L'età
adulta non può essere raggiunta in nessun modo senza il trofeo
della testa cacciata. Tuttavia sono previste delle eccezioni alla
regola, se all'adolescente ripugna uccidere un anziano innocente,
oppure se delle considerazioni di carattere politico inducono i
Jivaro a evitare provocazioni al popolo confinante con cui
commerciano. L'adolescente può uccidere, invece che un
anziano, un bradipo, una preda che si può cacciare senza
problemi. La testa del bradipo sostituisce perfettamente il potere
magico di un anziano: perché? Perché il bradipo si
muove lentamente e con circospezione, come un anziano dotato di molta
esperienza. Il diritto universale dell'uomo alla vita si manifesta
proprio là dove una coerente, specifica istituzione considera
la caccia delle teste come un elemento imprescindibile della propria
cultura (cfr. Harner, 1973).
Maltrattamenti
crudeli che violano il diritto all'integrità del corpo
rivelano, quali possano esserne le motivazioni, l'intento di
conservare o rafforzare l'integrità della propria società.
Un tipo di maltrattamenti viene compiuto direttamente per assicurare
in maniera drastica l'appartenenza, la coesione e la delimitazione
rispetto ad altri individui che si trovano al di fuori della
struttura sociale desiderata: si pensi alla circoncisione degli Ebrei
e Maomettani, alle mutilazioni e produzioni di cicatrici, soprattutto
nei rituali di iniziazione, per sancire la definitiva appartenenza a
un determinato gruppo (tribù, etc.). Là dove la
mutilazione, in quanto operazione crudele, riguarda solo la sfera
sessuale delle donne e ragazze, si vuole confermare e consolidare,
attraverso l'appartenenza al gruppo, un ordine sociale riconosciuto
come l'unico umano e giusto (il dominio degli uomini sulle donne). La
rigida regolamentazione rituale reca già in sé
l'indicazione che una cosa del genere non può accadere in
nessun modo al di fuori di quell'ordine umano. Nei paesi in cui gli
organi di stato torturano per estorcere confessioni, ciò viene
fatto sempre per impedire qualcosa di «peggio».
L'intenzione di atterrire gli oppositori è destinata sempre a
scontrarsi con le misure adottate per tenere nascosti o negare i
misfatti più gravi. I torturatori non potranno mai liberarsi
del proprio marchio di infamia, quasi siano consapevoli di aver
violato un diritto fondamentale dell'uomo. Anche il politico francese
Le Pen, che pure ha riscosso molti successi, non potrà mai
liberarsi del marchio di infamia, per aver torturato durante la
guerra in Algeria, per conto e disposizione delle forze armate
francesi. La polizia turca che tortura i criminali e gli esponenti
del popolo curdo, fa questo con la giustificazione che solo questo
mezzo possa recare pace e sicurezza a tutto il popolo. Si tortura
sempre al servizio di una «giusta causa». Ma a dispetto
del grande dispiego di propaganda, menzogne, rinnegamento, i conti
non tornano. Accanto a tutte le azioni raccapriccianti compiute dalla
crudeltà delle istituzioni, resta pur sempre qualcosa, quasi
«sapessero ciò che fanno»: nella prassi più
brutale è presente la consapevolezza di aver violato un
diritto fondamentale.
Devo
esprimermi più concisamente e menzionerò soltanto
singoli fenomeni che ho scelto arbitrariamente, in cui si rivela
senz'altro il diritto dell'uomo che è alla loro base,
nonostante la sua apparente violazione; il tessuto sociale è
per così dire trasparente, e lascia
Le limitazioni, o persino la soppressione totale, del diritto all'autodeterminazione dei popoli assoggettati militarmente, politicamente e/o economicamente, costituiscono eventi ridondanti della politica del ventesimo secolo, che ha inventato nuovi sistemi giuridici legittimandoli «scientificamente» o storicamente (per esempio con le teorie razziali), i quali, accanto agli scopi economici e «utilitaristici», sono rivolti, in tutta la varietà dei loro mezzi, contro un unico comune avversario: il diritto universale dell'uomo all'autodeterminazione. Vorrei citare un esempio famoso, quello della Turchia dell'Asia Minore, ricostruzione dell'impero ottomano ormai obsoleto: gli Armeni dovevano essere fisicamente sterminati (1915) perché restasse soltanto il popolo dei Turchi e l'autodeterminazione potesse diventare tautologia. I popoli curdi furono soppressi a livello semantico come popolo (con le proprie lingue, tradizioni, etc.) e chiamati Turchi delle montagne; attualmente essi sono sottoposti a un gran dispiego di misure, che hanno motivazioni giuridiche, militari e politiche, volte a impedire l'autodeterminazione del popolo e degli individui. Tutto ciò si può dedurre, nella maniera più immediata, da quei meccanismi di repressione che non lasciano intravedere scopi di altra natura, e dagli sforzi di portare all'estinzione la lingua (o lingue) curda. La lotta contro le lingue (dal divieto draconiano alla sciocca disputa sui segnali di località) è sempre rivolta contro un presupposto importante per l'autodeterminazione. Poiché la lingua comune serve, nella stessa misura, alla coesione di una comunità e alla sua delimitazione rispetto all'esterno, la sua estinzione sembra comportare anche l'estinzione della fastidiosa rivendicazione del diritto all'autodeterminazione. In altri luoghi l'autonomia linguistica delle parti non disturba affatto la cooperazione all'interno di un'unità statale. Nella Costa d'Avorio (Africa occidentale) il francese, la lingua dei dominatori coloniali, è stata accettata senza proteste come lingua ufficiale, senza che venisse posta una qualunque limitazione all'uso di una delle oltre cinquanta lingue «autoctone» della repubblica indipendente.L'abolizione
della schiavitù, nella forma che ha assunto nell'età
moderna, è considerata a ragione una delle tappe più
importanti del progresso della civiltà. Il divieto della
schiavitù fu ascritto, al di là dei mutamenti economici
in atto (lo sviluppo industriale), all'influsso morale
dell'Illuminismo (guerra civile americana) e alla dottrina religiosa
protestante in esso confluita (movimento abolizionista). Il processo
dell'abolizione dello schiavismo e della tratta degli schiavi non si
è ancora concluso: la liberazione degli schiavi si deve
affermare nel mondo intero attraverso la pressione politica ed
economica. Nei luoghi e nelle epoche in cui lo schiavismo sembrava
essere un fenomeno indiscusso e naturale, bisogna tuttavia
riconoscere che la schiavitù mostrava alcuni elementi del
diritto all'autodeterminazione. Nelle forme così diverse della
servitù della gleba (dai servi della gleba contadini in Europa
e nell'impero zarista fino ai captifs dei nomadi del Sahara)
sono sempre stati previsti cambiamenti di stato validi a livello
giuridico (liberazione e simili) che consentono agli schiavi
l'indipendenza. Là dove, cosa abbastanza frequente, lo status
di servo della gleba si mescola a forme di reciproca dipendenza,
sulla base del diritto di famiglia, il diritto di disporre della
propria persona prevale sulla dipendenza familiare, da cui, com'è
noto, ci si può liberare solo attraverso cambiamenti
nell'organizzazione familiare (il matrimonio). La tratta degli
schiavi per il mercato caraibico e americano si basava sulla
collaborazione con i cacciatori di schiavi, e costituiva un settore
economico dei popoli della costa dell'Africa occidentale, che
venivano pagati per le loro consegne. Gli Ashanti e altri popoli Akan
consideravano i prigionieri neri una merce, una mercanzia priva di
propri diritti. Con un'unica eccezione. I prigionieri dovevano spesso
attendere, nelle mani dei loro rapitori lungo la Costa d'Avorio,
l'arrivo della nave successiva che li avrebbe portati, nella misura
in cui sopravvivevano, ai loro compratori in America. In quel periodo
i loro temporanei padroni non potevano disporre della loro forza
lavoro. Gli Ashanti li avrebbero utilizzati volentieri come
lavoratori nelle loro piantagioni o come schiavi domestici. Il
rispetto dell'autodeterminazione al fine dell'autoconservazione
ammetteva una sola possibilità di conservare l'interesse di
entrambe le parti, l'autodeterminazione dello schiavo e lo schiavista
come datore di lavoro. Lo schiavo/la schiava doveva essere accolto
attraverso il matrimonio nell'organizzazione familiare. Se ciò
accadeva, il problema era risolto per entrambe le parti del deal:
liberi congiunti, imparentati dal matrimonio, mettevano senza
alcuna limitazione la propria forza lavoro a disposizione
dell'organizzazione familiare, che ora era divenuta la propria.
Il
diritto di ogni bambino a un sano sviluppo, così come
viene stabilito nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo,
corrisponde perfettamente nella sua interpretazione all'attuale
modello degli stati «sviluppati» (divieto del lavoro
minorile, diritto all'istruzione elementare gratuita). La «pedagogia
nera» è caduta in discredito solo da poco tempo nella
nostra cultura, e non è scomparsa dalla prassi. Nell'oscura
preistoria dei «primitivi» dai tropici agli Inuit, gli
Eschimesi dell'Artico canadese non esistono etnie prive di
istituzioni che definiscano questo diritto o per lo meno ne lascino
intuire l'azione. Nei riti iniziatici di ogni tipo, i diritti dei
bambini e le corrispondenti cure della famiglia o società,
sono nettamente distinti dai diritti riconosciuti ai figli che
entrano gradualmente nella condizione di adulti. In non poche
culture, per esempio presso i Maya in Messico, viene stabilito il
diritto del bambino ancor prima della nascita, attraverso una serie
di norme, stabilite da specifici rituali della vita quotidiana delle
gestanti; dopo la nascita è prevista la, pausa per
l'allattamento e per le cure che la madre deve prestare al lattante.
Nel moderno stato del Messico l'insegnamento elementare non è
affatto accessibile a tutti i bambini; i bambini maya che vivono
nelle zone della foresta tropicale crescono, per la maggior parte,
senza una formazione scolastica. Dato che i bambini non sono in grado
di costituire un pressure group e la società avverte
solo in maniera indiretta gli effetti della scarsa considerazione dei
loro diritti, bisogna supporre che il diritto universale del bambino
si affermi là dove gli «illuminati» diritti
dell'uomo non sono affatto conosciuti. (In Svizzera non è
stata ancora introdotta, per motivi politici ed economici, una
assicurazione per la maternità).
Infine
nella mia enumerazione tratterò dei diritti dell'uomo che sono
al centro del dibattito politico degli stati europei occidentali e
degli Usa: la maniera di accogliere lo «straniero»,
l'ospite, il profugo, l'immigrato, uomini che per la loro origine
«non fanno parte del paese», è prevista nel
diritto universale dell'uomo. Non conosco nessun popolo che non
sappia distinguere tra stranieri e propri membri. Diversi popoli
denominano i propri membri con la parola che significa persona
(lingue bantu) o uomo (inglese). Ciò non significa affatto che
gli altri siano considerati a priori nemici, esseri inumani o
non umani. Esistono infine varianti di modelli culturali che
stabiliscono da una parte il diritto dello straniero all'ospitalità
e dall'altra le regole per poter accogliere, «integrare»
gli stranieri nella comunità. Le regole morali che dovremmo
seguire secondo la Dichiarazione dei diritti dell'uomo, ci giungono,
per così dire, troppo tardi storicamente, sono state superate
in termini utilitaristici. Lo straniero pacifico viene rispettato
perché è un ospite (diritto di ospitalità),
contro l'interesse economico. (In Svizzera l'industria del turismo ha
assorbito e scalzato l'istituto dell'ospitalità che si era
sviluppato per tradizione nelle zone alpine, come in tutte le regioni
particolarmente inospitali). Il diritto d'asilo, nella prassi, è
presente in nuce presso molti popoli, anche quando si espongono in
tal modo a dei pericoli o ne ricavano svantaggi. Molto prima della
fondazione degli stati nazionali, quando si ignoravano del tutto i
concetti del diritto internazionale di sovranità e di trattato
internazionale, sono sorte istituzioni che garantivano una pacifica
convivenza con i vicini. I Dogon, un popolo di agricoltori, sono
legati al popolo di pescatori dei Bozo, sul Niger, da una durevole
amicizia attraverso la nota «parentela per scherzo»
(parenté à plaisanterie). Anche altri popoli
dell'Africa occidentale hanno simili istituzioni. I Trobriander, i
famosi «Argonauti del Pacifico», hanno una pace duratura
con i popoli insulari limitrofi grazie al Kula, un rituale di baratto
descritto da Malinowski, e sono attualmente sul punto di sostituire
in parte questo rituale con una sorta di campionato di calcio (cfr.
Maier, 1996).
La
discussione sfiora a questo punto problemi di diritto internazionale,
il quale può basarsi solo sul diritto universale degli
individui, allo stesso modo che questo può essere rispettato
solo attraverso l'adozione del diritto internazionale. Nonostante
siano strettamente connessi, non posso addentrarmi nei problemi del
diritto internazionale. Essi sono troppo distanti dal punto di vista
dell'etnologia, e devono essere analizzati piuttosto dal punto di
vista delle scienze politiche e della filosofia del diritto.
Cerco
di riassumere i concetti che emergono allorché
si considerano l'analisi psicoanalitica e quella etnologica. Si
devono menzionare allora quelle forze che sono indirizzate contro
il rispetto dei diritti universali dell'uomo, che ne impediscono
o ne ostacolano il rispetto o anche solo la percezione, che ne
determinano la scomparsa in maniera così notevole che si può
parlare della invisibility dei diritti dell'uomo
analogamente all'espressione invisibility of women, con cui
viene definita la scomparsa delle donne dalla ricerca etnologica. La
II Dichiarazione dei diritti dell'uomo (1793) dei Giacobini
che prometteva «uguaglianza, libertà, sicurezza e
proprietà», ebbe per molto tempo una cattiva fama.
Secondo questa, il principio egualitario, l'uguaglianza prima
della libertà, avrebbe tradito una concezione etico
volontaristica che recava in sé la minaccia di un
governo del terrore. In seguito il diritto dell'uomo si sarebbe
trasformato col bolscevismo in necessità rivoluzionaria.
Recentemente gli storici hanno dimostrato che si era inteso non un
egualitarismo livellatore, bensì la parità di diritti
di tutti i cittadini e cittadine (cfr. Gross, 1997). L'errore
storico è stato da tempo corretto. La stessa libertà,
gli stessi diritti per tutti significherebbero soltanto che i diritti
dell'«altro» devono essere considerati alla stessa
stregua dei propri. Con questa indispensabile, realistica
limitazione, i diritti dell'uomo avrebbero dovuto rivendicare una
valenza universale. La loro fama tuttavia non migliorò, ma
divenne qualcosa di diverso: i diritti dell'uomo sarebbero
espressione di un pensiero ingenuo, irrealistico utopistico.
Può
sembrare ingenuo anche il mio tentativo di dimostrare, partendo da un
procedimento analitico, scelto in maniera arbitraria, i valori del
diritto universale dell'uomo là dove, a una visione
distaccata, sembrano essere assenti. Il «sano buon senso»
può senz'altro accettare i diritti dell'uomo come un'esigenza
morale e troverà degni di ascolto la Carta delle Nazioni Unite
e i principi del Consiglio Europeo. Resta però un mistero chi
e in che modo possa imporre e garantire l'osservanza dei diritti
universali dell'uomo. Al contrario è possibilissimo menzionare
quelle forze che in ogni struttura sociale, in pace come in guerra,
si oppongono all'applicazione dei «bei» principi. Intendo
le istanze che determinano ogni tipo di convivenza, non solo la forma
particolare di organizzazione e le costituzioni statali. Sono
interessi di potere, spesso dotati del monopolio delle forze
militari, di polizia e di altro tipo ancora. Essi sono spesso al
servizio di interessi economici, quando non coincidono
completamente con essi. Dato che l'economia di regola non dispone di
un proprio apparato di potere, può procedere senza scrupoli,
dunque in maniera «immorale», essendo intrinsecamente
connessa al potere statale. Nell'economia del «libero mercato»
l'applicazione dei principi del Fondo Monetario Internazionale è
garantita fino a quando la polizia e le forze militari degli stati
che si fanno «risanare» l'economia, domano la popolazione
insoddisfatta c/o sofferente. Un'azione materialmente non così
evidente, ma senz'altro rilevante contro l'applicazione dei diritti
dell'uomo, è esercitata da quelle idee che determinano il
comportamento politico e sociale dei membri di una nazione o di
un'altra comunità. Sono ideologie nazionalistiche e
religiose, soprattutto quelle che vengono diffuse da una
religione di stato o da una chiesa, così da conseguire il
consenso della maggioranza. Confluiscono entrambe le une nelle altre,
non solo in uno stato teocratico. Le convinzioni nazionalistiche e
religiose sono inseparabili quando si parla di popoli eletti, di
grande nazione, dei Tedeschi dello stato hitleriano, degli
Ebrei, degli Sciiti iraniani, o delle nazioni che hanno elaborato per
sé la pretesa della santità e dunque una innata
superiorità sugli altri popoli (Serbi).
Interessi
di potere, interessi economici, ideologie nazionali e religiose, li
riassumo col termine di «forze», a significare che il
loro influsso contro il rispetto dei diritti universali dell'uomo e
la loro applicazione, è chiaramente documentabile. In tempo di
pace si formano sempre movimenti che si oppongono alle «forze»
tradizionali, organizzate nelle istituzioni. Alcuni sono orientati in
senso transnazionale, come i movimenti di emancipazione femminile
contro l'ideologia e l'istituzionalizzazione del patriarcato, altri
lottano per un cambiamento all'interno di determinate istituzioni: il
movimento per l'apertura della chiesa cattolica come chiesa del
popolo o le correnti tolleranti dell'Islam; e naturalmente tutte le
diverse aspirazioni socialiste, che si adoperano per il miglioramento
dell'ordine economico capitalistico, per esempio per un'economia
sociale di mercato, a prescindere da coloro che vogliono invece
sostituire nella lotta di classe l'ordine capitalistico, (o
monetario) con un altro, del tutto diverso. Poiché tutti
questi movimenti possono tutt'al più avere successo solo a
lunga scadenza, ci si dovrebbe attendere che in tempo di guerra,
quando cioè sono note violazioni gravissime dei diritti
dell'uomo, si verifichino progressi più rapidi e significativi
nell'applicazione dei diritti dell'uomo. Com'è noto,
l'invocazione dei diritti dell'uomo è certamente più
forte, viene udita nel lager di Keraterm, l'effetto, tuttavia, è
modesto. Un solo esempio: nell'agosto del 1997, sei anni dopo
l'inizio della guerra di aggressione e annientamento nell'ex
Jugoslavia, la stimata società Human Rights Watch ritiene che
sarebbe un progresso per i diritti umani, se i peggiori criminali
conosciuti fossero deferiti a un tribunale, e vede in ciò
«un'opportunità per fondare un sistema giuridico
internazionale in grado di dissuadere coloro che in futuro potrebbero
commettere crimini di guerra contro l'umanità» (Human
Rights Watch, 1997). Tutto ciò non sembra essere una
dichiarazione autorevole, né una promessa di una rapida
svolta.
Non
è stato ancora dimostrato che la minaccia di punizioni abbia
dissuaso dei potenziali criminali dalle loro azioni. Si dovrebbe
forse imputare alla Human Rights Watch la responsabilità di
aver contribuito a «produrre una falsa coscienza nelle masse»
(Erdheim, 1984)? Produrre una falsa coscienza nelle «masse»
è considerato uno degli strumenti più importanti del
potere per stabilire e consolidare ideologie utili a conservare il
potere. La richiesta di pene per i criminali di guerra, la loro
condanna e pena, ha lo scopo però di rafforzare la coscienza
di quanto sia ingiusta la violazione dei diritti universali
dell'uomo. Dato che, secondo la nostra analisi, tali elementi sono
contenuti come antitesi in tutte le istituzioni e ideologie, dato
inoltre che la psicoanalisi attribuisce alla formazione dell'Io e al
Super io le funzioni che promuovono, eventualmente, il rispetto
dei diritti universali dell'uomo, anche se soltanto nel corso di un
lungo sviluppo, tali dichiarazioni non sono affatto a priori inutili
o inefficaci. Per questa ragione ho deciso di prendere parte anch'io
al dibattito con Muhidin Saric. In molti stati si levano le proteste
di singoli individui o si formano gruppi di cittadini e cittadine che
si adoperano per i diritti dell'uomo. Dipende dalla condizione
attuale e dalla struttura più o meno autoritaria e chiusa, se
questi rappresentanti dei diritti dell'uomo sono discriminati come
dissidenti, perseguitati o tollerati. Negli stati democratici
liberali sono investiti ufficialmente del compito di difendere i
diritti dell'uomo, ed eventualmente sostenuti da istituzioni
giuridiche. Essi devono prepararsi, a ogni modo, a una lunga lotta, e
potranno vantare solo pochi successi, in casi particolari. Le
istituzioni tradizionali che agiscono contro i diritti dell'uomo,
opporranno resistenza, sebbene, a nostro avviso, contengano
anch'esse, in forma di compromesso, delle norme del diritto
dell'uomo.
Le
«grandi» religioni sostengono un'etica che è
concepita essenzialmente in modo tale da farla coincidere con i
diritti universali dell'uomo, sicché una difesa di essi
risulterebbe superflua, se solo tale morale fosse rispettata da tutti
i membri della chiesa. Tuttavia le violazioni dei diritti dell'uomo
più vaste e più gravi sono accadute proprio nel nome di
una religione, per lo più riconoscendo i diritti dell'uomo
solo agli «ortodossi», e negando agli altri (atei,
eretici, pagani, etc.) lo status di essere umano e dunque la
rivendicazione di tali diritti. La tolleranza viene forse predicata,
ma a stento praticata. I dogmi impongono dei limiti. Anche in tempo
di pace la libertà religiosa si imbatte nei tabù (si
pensi ai crocifissi nelle scuole bavaresi) e contesta il diritto di
disporre del proprio corpo, a favore di una pretesa di potere,
ammantata di ideologia (l'interruzione di gravidanza viene definita
un delitto). In ciò le religioni non sono più liberali
di quelle ideologie totalitarie che, richiamandosi alla storia, alla
tradizione o ad altre idee, considerate valide in maniera assoluta,
erigono a dogma i propri ordinamenti nazionalistici o
socialistico egualitari. I diritti universali dell'uomo non sono
affatto dei sistemi di valori sviluppatisi in determinate tradizioni,
né si possono equiparare all'amore cristiano del prossimo,
alla tolleranza buddista, o alla giustizia di una teocrazia; sono
anche al di là degli ordinamenti «razionalistici»
di una società. È necessario liberarli da quelle forme
complesse di compromesso in cui sono finiti, e ricondurli nell'ambito
dello sviluppo psichico degli individui, perché siano validi.
Non c'è alcun ordinamento sociale, che abbia motivazioni
religiose o altrimenti ideologiche, in cui si sia obbligati ad
accettare la violazione dei diritti dell'uomo, perché così
è l'usanza.
La
libertà religiosa comprende certo l'esercizio di determinati
rituali. Donne e ragazze di fede islamica portano il velo in molte,
ma non in tutte le comunità musulmane. Se si mettono in atto
punizioni corporali crudeli, in conformità alla Sharia,
bisogna esigere che venga abolito il dogma che è alla base
della Sharia. Recentemente mi è stato posto il seguente
quesito, se sia lecito abolire l'escissione delle ragazze, nei popoli
africani, e se ciò non equivalga all'annullamento della loro
cultura una prosecuzione del potere coloniale. Tanto più che
la maggior parte delle ragazze e donne rispettivamente desidera e
approva la dolorosa mutilazione. Rispetto a quest'ultima osservazione
desidero ricordare che le punizioni crudeli dei bambini (bastonature,
birching, spanking, ceffoni) nell'ambito della pedagogia nera,
sono elementi apparentemente indispensabili della nostra cultura,
nella scuola e nella famiglia. Conosco personalmente diversi
esponenti dei nostri stati occidentali, che vivono nella tradizione
cattolica e protestante, che rammentano con «gratitudine»
questi maltrattamenti e non esitano a infliggerli ai propri bambini.
Queste crudeltà sono generalmente scomparse dalle scuole e
dall'organizzazione familiare. Le condizioni culturali non hanno
sofferto di questo rinnovamento. I Tedeschi non sono cambiati dal
punto di vista culturale, né dal punto di vista morale, da
quando il bastone è stato bandito dalla scuola e dalla
famiglia. Quando si parla dei diritti universali dell'uomo, e
si dà alle organizzazioni internazionali l'incarico di
tutelarli, si ha non solo il diritto, ma anche il dovere di
intervenire dinanzi a delitti così crudeli, e di così
vasta portata, come quello dell'escissione del clitoride. Dipende da
fattori politici, dai rapporti di potere se questo è possibile
o attuabile.
«Cosa
sono in realtà i diritti dell'uomo?» è necessario
chiedersi. La risposta è di volta in volta diversa, a seconda
della persona cui questa domanda viene rivolta. Per i redattori della
Carta dell'O In
base all'analisi etnologica si può affermare che i diritti
dell'uomo sono parte costitutiva di tutte (o quasi tutte) le
istituzioni delle varie culture, e che, in linea di principio, non
esistono impedimenti per richiederne il rispetto, in culture in cui
essi sembrano mancare in parte o del tutto. Non si apporta, cioè,
nulla di nuovo, di estraneo dal punto di vista culturale, ma si cerca
di favorire il riconoscimento e la manifestazione di una tendenza
alla quale si oppongono «forze più potenti». Parlo
dei diritti universali dell'uomo, senza stabilire se li consideri
«innati» o «acquisiti», risultato cioè
di un processo di incivilimento. Il fatto che i diritti dell'uomo
siano documentabili in tutte le culture farebbe ritenere che sono
«innati»; il fatto che siano indispensabili dei processi
educativi perché diventino efficaci, farebbe pensare che sono
«acquisiti». La questione «innati» o
«acquisiti» non apporta grandi risultati. Paragono i
diritti universali dell'uomo all'evoluzione del linguaggio, a
proposito del quale Sigmund Freud (1933, p. 241) sostiene: «È
il patrimonio universale dell'umanità ( ... ), familiare a
tutti i bambini ( ... ) e suona uguale in tutti i popoli a dispetto
delle diversità di lingua4». Per la definizione dei
diritti universali dell'uomo, mi servirò delle «analogie».
Nonostante la diversità delle formazioni sociali, i diritti
universali dell'uomo si presentano ovunque, devono tuttavia essere
acquisiti attraverso uno sviluppo sociale e individuale perché
diventino efficaci.
La
psicoanalisi non mostra soltanto che l'uomo è in grado di
rispettare e insieme di negare i diritti dell'uomo, e perché.
Sa che l'uomo è modificabile e che sono modificabili anche le
forme della convivenza umana e la costituzione degli stati, tuttavia
sa anche che sono necessari tempi lunghi, molte generazioni e sforzi
incredibili, perché si producano tali auspicabili cambiamenti.
Sollecitato da Albert Einstein a dare il proprio parere sulla «natura
dell'uomo», Sigmund Freud si mostrò alquanto scettico.
Egli ammise che i cambiamenti sono possibili ma aggiunse: «È
triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente
muore di fame prima di ricevere la farina5».
Bibliografia
Erdheim, M. (1984), Die gesellschaftliche Produktion von Unbewusstheit. Frankfurt a. M.: Suhrkamp. Fisch, J. (1996), Darf man Menschenrechte mit Gewalt durchsetzen? In, Kursbucb, Heft 126, Dezember 1996. Freud, S. (1913), Totem e tabù. OSF, vol. 7. Torino: Boringhieri, 1975. Freud, S. (1927), L'avvenire di un'illusione. OSF, vol. 10. Torino: Boringhieri, 1978. Freud, S. (1930), Il disagio della civiltà. OSF, vol. 10. Torino: Boringhieri, 1978. Freud, S. (1933), L'Uomo Mosé e la religione monoteista. OSF, vol. 11. Torino: Boringhieri, 1979. Gross, J.P. (1997), Der egalitäre Liberalismus der jakobiner. In Le Monde diplomatique/taz/woz, September 1997. Harner, Mj. (1973), The Jivaro. Garden City, New York: Anchor Press Doubleday. Human Rights Watch (1997), Arrest now! Brüssel. Lukes, S. (1996), Fünf Fabeln übers Menschenrechte, In, Shute, S., Hurley, S. (a cura di) Die Idee der Menschenrechte. Frankfurt a. M.: Fischer. Maier, C. (1996), Das Leuchten der Papaya. Ein Berick von den Trobriandern in Melanesien. Hamburg: Eva. Saric, M. (1994), Keraterm. Erinnerungen aus einem serbischen Lager, übers. Von K. D. Olof. Klagenfurt: Drava Verlag. United
Nations (1985), The International Bill of Rights. New York.
Note
l.
Iniziale di Juden, Ebreo. (N.d.T.).
2.
Sembra che attualmente, per le proteste sollevatesi all'estero e
all'interno del paese, la «R» non venga più
apposta nei documenti.
3.
1 versi sono tratti da Die Dreigroschenoper, GW., St. 2, S.
432, Frankfurt a. M.: Suhrkampf, 1967. Trad. it., L'Opera da tre
soldi. Torino: Einaudi, 1963, trad. di E. Castellani. (N.d.T.).
4.
La citazione è tratta da Der Mann Moses und die
monotheistische Religion, GW., Bd. XVI, S. 577. Trad. it., L'uomo
Mosé e la religione monoteistica. In OSF, Torino:
Boringhieri, 1979, vol. 11, pp. 448 449, trad. di P.C. Bori, G.
Contri, E. Sagittario. (N.d.T.).
5.
La citazione è tratta da Warum Krieg?, GW., Bd. IX, S.
284. Trad. it, Perché la guerra?. In OSF, Torino:
Boringhieri, 1979, vol. 11, p. 301, trad. di S. Candreva, E.
Sagittario. (N.d.T.).
Riassunto. L'Autore, dopo una serie di considerazioni generali sul tema inerente i diritti dell'uomo, si sofferma sull'analisi di problemi messi in luce da due scienze, quali la psicoanalisi e l'etnologia. Mentre il punto di vista psicoanalitico aiuta a comprendere quali sono i fenomeni psichici che inducono al rispetto o alla violazione del diritto umanitario, quello etnologico, mettendo a confronto diverse culture, permette di rispondere a quesiti riguardanti la diversità dei diritti dell'uomo nelle varie strutture sociali, la loro validità comune a più popoli, l'eventuale imposizione o condizionamento, tramite anche l'uso della forza, di diritti differenti a quelli di una precisa situazione culturale. Parlandone e discutendone con Muhidin Saric, l'Autore cerca di dare una spiegazione a fatti ancora troppo poco chiari. Summary.
After a number of general considerations regarding the subject
ofhuman rights, the author lingers ori the analysis of the questions
focused by two different disciplines: psychoanalysis and ethnology.
While the psychoanalytic perspective contributes io the understanding
of the psychic phenomena ai the basis of the respect or of the
violation of the humanitarian right, the ethnological one, through a
confrontation of different cultures, allows us io answer the
questions connected with the diversity of human rights among the
different social structures, their validity for many peoples, the
possible imposition or conditioning, after the use of violence, of
rights different than those typical of a particular situation. In his
conversations with Muhidin Saric, the author tries io give an
explanation to some facts which are still unclear.
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