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PSICHIATRIA E CULTURA: NOTE E CONFERENZE

Vtitorino Andreoli

 

 

 

La perizia psichiatrica

Vittorino Andreoli

 

Lezione tenuta il 7 maggio 1999 alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria Forense dell'Università del Sacro Cuore di Roma.

 

  1. La capacità di intendere e di volere
  2. Tra norma e psichiatria
  3. Sulla pericolosità sociale
  4. Giudici e psichiatria
  5. Domande e risposte

 

 

 

Giudici e psichiatria

La considerazione attuale da parte delle corti del lavoro psichiatrico è spesso inadeguata e talvolta persino disastrosa: in tribunale la psichiatria viene sovente strumentalizzata, e anzi accade che sia il magistrato a utilizzare lo psichiatra, non per uno specifico sapere, ma per una sorta di condivisione di un giudizio.

Non è casuale, per esempio, che, in uno stesso processo, ci siano addirittura tre conclusioni psichiatriche, formulate rispettivamente dal medico chiamato dal Gip, da quello della difesa e da quello scelto dal pm.

Così, anche a livello psichiatrico viene ripetuta quella sorta di conflittualità, tipica del diritto della difesa e dell'accusa, inscenando sul sapere psichiatrico una battaglia di teorie a seconda della posizione in cui si è stati chiamati. Al punto tale, che se gli psichiatri cambiassero ruolo, lo stesso psichiatra che prima aveva assunto una linea, per esempio difensiva, ne assume un'altra opposta.

Cretamente sto portando un caso estremo di un modo di agire che, di fatto, ha indotto la magistratura a un atteggiamento molto guardingo e di scarsissima fiducia negli psichiatri, nel risultato delle loro perizie.

Tanto che spesso la richiesta di un consulente non viene fatta perché ritenuta utile al processo, ma perché, in qualche modo, rende meno gravosa la dura decisione del giudizio, che spetta, in ultima istanza, soltanto al magistrato.

Ciò non toglie che sia assurdo che il giudice possa considerarsi peritus peritorum: in altre parole, se è certo che la sentenza spetti soltanto a lui, non per questo può interferire con la conclusione peritale. E precisamente, potrà scegliere se tenerne conto o meno, ma non disattendere la perizia nel suo contenuto finale. Altrimenti si arrogherebbe un sapere che non possiede, ragione esatta per cui chiama, nel processo, il perito a renderlo edotto sul punto.

In pratica, questo significa che se, come è accaduto nel caso Maso, il soggetto deve essere considerato sano di mente, o comunque capace di intendere e di volere nel momento, del fatto, il magistrato non può fondare la propria decisione sul fatto che Maso sia seminfermo di mente. Può addurre qualsiasi altra motivazione alla sua sentenza, tranne questa. Altrimenti diventa un'offesa allo psichiatra e soprattutto alla psichiatria.

Se la corte mi chiede: "come fa, professore, a concludere che è sano di mente, se ha ammazzato sua madre e suo padre per una eredità?", l'unica risposta che posso dare è chiedere al giudice: "se lei è già convinto di sapere, perché chiama me?".

Non spetta al perito imporsi o proporsi, la legge espressamente dà questa facoltà al giudice per aiutarlo ad assumere gli elementi necessari a decidere.

Ma, se questi decide di avere bisogno di una consulenza psichiatrica, deve, sul punto, attenersi alle conclusioni date dalla psichiatria. Alla fine potrà non tenerne conto, ma mai contraddirla. Perché, altrimenti, significa che chiama un esperto su ciò che lui, come giudice, non può sapere, essendo esperto di leggi, ma si arroga, infine, il diritto di discuterne, senza strumenti appropriati, la validità. Come ogni disciplina, la psichiatria ha conoscenze proprie che vanno rispettate, qualora la si chiami in causa. Al giudice rimane la libertà assoluta di scelta di lasciarla fuori.

Mi preme sottolineare che non sto assolutamente sminuendo l'autorità dei giudici, tutt'altro. Ma lo psichiatra vuole essere una persona che, chiamata, abbia il diritto di usare la propria professionalità correttamente, applicando le tecniche e il sapere, propri della sua scienza, formulando una risposta, a cui il giudice potrà anche non dare attenzione, ma non può modificarla. Naturalmente, io faccio questo discorso dal punto di vista della psichiatria, ma credo che sia un assunto che si estenda a tutti gli aspetti peritali.

Ma per la psichiatria la situazione è particolarmente delicata: si è infatti creata la convinzione che lo psichiatra entri nel processo senza contare nulla. Prova ne sono i compensi bassissimi — ragione per cui io ho lavorato gratuitamente —, le condizioni sfavorevoli, come la difficoltà di vedere il paziente, senza contare che il setting non è certo favorevole per poter fare un'analisi relazionale. Si tratta del carcere, non si può rinunciare alla presenza della guardia carceraria, a meno che uno non si assuma, per iscritto, la responsabilità di ciò che può succedergli.

Ma il compito è, anche socialmente, molto importante. Per questo c'è da auspicare che la psichiatria acquisti lo spazio che le spetta rispetto al comportamento criminale, fino al punto da chiedersi se sia possibile che un giudice possa sancire una condanna senza avere raccolto dati tecnici sulla valutazione della personalità.

Bisogna tuttavia che questo ruolo venga rivisto, cominciando a far sì che il quesito sia aderente al sapere psichiatrico, che lo psichiatra possa insomma agire secondo quella scienza e coscienza che non applica vedendo per due volte un carcerato assieme ai periti di parte, magari in condizioni dove non c'è neanche uno studio medico.

Entrate in un carcere per una perizia psichiatrica e vi accorgete di qual è la considerazione dello psichiatra rispetto alle altre figure che hanno a che fare con il processo.

Nno chiedo certo che si provveda a fornire il lettino di Freud, ma lo psichiatra deve essere messo nelle condizioni di decidere come lavorare, seguendo i propri metodi per creare la relazione terapeutica o comunque di comprensione, altrettanto necessari al suo lavoro quanto un bisturi al chirurgo.


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