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Riceviamo da Anna Grazia un commento su "Salvate il soldato Ryan" di S.Spielberg. Lo spazio dedicato al cinema di POL.it, inaugurato da poco, è aperto a suggerimenti e contributi.
"Saving Private Ryan" (Salvate il soldato Rayan) recensione di Anna Grazia Non fa nessuna differenza che cosa pensino gli uomini della guerra. [...]La guerra continua ad esistere. Tanto varrebbe chiedere agli uomini che cosa ne pensano delle rocce. La guerra è sempre esistita. Prima che l'uomo venisse al mondo, la guerra lo stava aspettando. Mestiere supremo in attesa de supremo praticante. (Corman McCarthy) E' difficile proporre la recensione del film "Saving private Rayan" (Salvate il soldato Rayan) di Steven Spielberg, dopo il battage pubblicitario che ha preceduto l'uscita in Italia del film visto in anteprima a Venezia, culminato nell'intervista di Gad Lerner con il regista andata in onda nella trasmissione 'Pinocchio' lo scorso mese. Già a partire dal titolo "Saving private Rayan" notiamo il salto semantico dal gerundio 'saving' che viene tradotto in italiano con l'imperativo "salvate": si nota subito che il gerundio "saving" è più pertinente alla vicenda del film che si svolge proprio a partire dagli avvenimenti che dalla sbarco sulla spiaggia di Omaha Beach portano un gruppo di soldati guidati dal colonnello Miller alla ricerca sul fronte del soldato Rayan.Contrariamente alla retorica abituale dei film di guerra, come recita lo slogan, "The mission is a man". Mentre in "Schindler's list", l'unica nota di colore nel film era il cappottino rosso della bambina ebrea prima che venisse avviata nella camera a gas disposta dalla pazzia hitleriana, qui invece il contrario, l'unica nota in bianco e nero in un film a colori è quello della bandiera americana tinta con colori lividi, a simboleggiare ancora che l'America ha perso con la guerra la sua innocenza e per riscattarla ha la necessità di cercare disperatamente un disperso, una persona qualsiasi, soldato semplice, ma unico sopravvissuto di quattro fratelli, tutti morti in guerra. Non desidero soffermarmi sulla cronaca dell'evento storico: gli elementi della trama sono noti e il drammatico sbarco delle truppe americane in Normandia viene documentato con il realismo delle scene di un 'combat film', sulla spiaggia di Omaha Beach. La figura del colonnello Miller, interpretato da un efficace Tom Hanks, ha commosso sia le platee americane che quelle europee, riesce a dare corpo al moderno 'antieroe' americano, quasi un 'soldato per caso' che dimostra grande equilibrio e un sobrio eroismo nel guidare la missione impossibile di recuperare e rimpatriare il soldato Rayan. La sua mano tremante, lo sguardo perso davanti all'orrore della distruzione, le sue lacrime per la morte dei compagni di battaglia ci presenta un personaggio che dalla normalità delle sue occupazioni (era un insegnate di letteratura) viene sbalzato violentemente dagli avvenimenti storici nel teatro bellico dove la lotta per la sopravvivenza è l'unica forma di vita possibile. Siamo quindi molto lontani dallo stereotipo dei personaggi caro al cinema holliwodiano di John Wayne o il più recente Silvester Stallone che nei panni di Rambo ha fornito molteplici interpretazioni del guerriero invincibile. Ma uscendo dal cinema, dopo essermi ripresa dal realismo degli effetti speciali, respirando l'aria fredda delle prime nebbie di novembre, mi balenava l'idea che il vero protagonista del film non fosse né colonnello Miller né il soldato Rayan, bensì l'archetipo della "Madre Americana" impersonata quasi inconsapevolmente dalla madre del soldato Rayan, che evocata in vari momenti, compare nel film molto fugacemente in un'unica scena. E' noto che nei film di guerra le donne hanno un ruolo assolutamente marginale e di supporto: in genere sono crocerossine, infermiere (straordinaria ad esempio l'infermiera de il "Paziente Inglese"), fidanzate infedeli, madri affrante, vedove inconsolabili che rimangono poi sempre sullo sfondo nelle loro case sempre linde con i giardini con l'erba diligentemente rasata e i bambini da accudire e da mandare a scuola. Si sa, la guerra è affare da uomini, e giustamente Spilberg rappresenta il genere femminile (l'altra metà del cielo) attraverso la voce struggente di Edith Piaf che da un grammofono diffonde le note di una canzone d'amore prima della battaglia finale contro i terribili carri armati dei tedeschi. Ma è soprattutto l'invocazione alla madre, che spesso ricorre quando l'atroce morte in guerra stronca i giovani soldati americani chiamati a combattere per la libertà altrui, che forse poco o nulla sapevano dell'orrore del nazismo. E dietro il volto della madre di Rayan, appare l'indomabile spettro della morte che colpisce inesorabile una intera famiglia di soldati-fratelli.La guerra è infatti una delle attività più rigidamente connotate attraverso il genere che l'umanità conosca. Talmente esclusivo è il nesso tra guerra e mascolinità che gli studiosi ne parlano senza quasi sentire la necessità di nominare i due sessi. Barbara Ehrenreich nel suo saggio "Riti di sangue" in cui indaga le origini della 'passione' della guerra ci ricorda che in un'antologia di scritti di antropologia della guerra, tutti di autori maschi pubblicata nel 1900, non esistono neppure le voci "genere" o "maschile" e le donne sono citate come mogli o prigioniere di guerra. La guerra - partendo anche dall'imprescindibile dato biologico - diventa l'inevitabile esito dell'aggressività maschile, mentre le armi, la forza intrusiva delle lance e dei missili, la penetrazione e le esplosioni, mimerebbero tutte l'aspetto fallico della sessualità. Inoltre a differenza di altre occupazioni (artigiano, medico, contadino, pescatore ecc...) nel caso della guerra la storia non ci presenta una analoga alternanza tra i sessi. Esistono esempi di donne guerriere, ma al di là del mito delle Amazzoni, di solito questo passaggio implica la metamorfosi da donna a uomo (come rappresentato nel film "Soldato Jane" centrato sulla figura di una donna che viene sottoposta allo stesso addestramento dei marines): nella guerra del Golfo tra USA e Iran ha visto in azione delle soldatesse, ma si trattava di donne che avevano completamente compiuto questa metamorfosi di genere, ed erano diventati a tutti gli effetti soldati addestrati al combattimento. Non solo le donne, per andare in guerra, hanno dovuto travestirsi da uomini, ma persino gli uomini che fallivano come guerrieri venivano scherniti come "donne": l'antropologo Maurice Davies riferisce che quando gli irochesi espulsero dalla lega delle nazioni i 'delaware' proibendo loro di partecipare alle guerre, questi - secondo il modo di pensare degli indiani, furono "resi donne" e avrebbero dovuto limitarsi alle attività adatte alle donne.Il fare la guerra, dunque non è semplicemente una delle tante occupazioni monopolizzate dai maschi: è un'attività che quasi sempre è servita a 'definire' la virilità stessa, e secondo l'ipotesi della Ehrenreich è nata come occupazione sostitutiva per i maschi cacciatori-difensori. L'idea della guerra come porta di accesso alla virilità non è confinata ai popoli "primitivi". Dopo l'invasione di Panama da parte degli Stati Uniti, nel 1989, la stampa plaudì al presidente Bush per avere superato il "rito di iniziazione" dimostrandosi "disposto a spargere sangue". La capacità di comando del maschio, al pari della sua condizione di adulto, va dimostrata con il sangue. Come sottolinea Ann-Louise Silver in "Women who lead" è nella situazione della leadership militare che le donne sembrano intromettersi in un terreno patriarcale proibito e la psicoanalista cita di caso di Shannon Faulkner, nel suo tentativo quasi riuscito di entrare a "The Citadel" un'accademia militare in precedenza esclusivamente maschile (il riferimento della Silver è tratto dall'articolo sul New York Times Magazines intitolato "Il lupo solitario nella Citadel, Shannon Faulkner"). Le donne avrebbero potuto, in teoria, diventare guerriere in misura molto maggiore di quanto abbiano fatto: lo svantaggio femminile nel campo della forza muscolare era stato ridotto già da millenni con l'invenzione dell'arco e delle frecce, per non parlare del fucile, grande livellatore dell'epoca moderna. Né si può dire, come sottolinea J.B Elshtein nel suo studio sulla donna e la guerra che le donne posseggano alcuna innata inibizione circa il combattimento e lo spargimento di sangue. Le rivoluzioni e le insurrezioni hanno ripetutamente impiegato le donne in ruolo di combattimento, forse perché le forze rivoluzionarie sono per definizione meno formali e meno condizionate dalla tradizione che non gli eserciti degli stati nazionali. E anche come "non combattenti" le donne hanno sempre svolto ruoli alquanto feroci nelle guerre degli uomini. Insomma non esiterebbe nessuna insormontabile ragione biologica o "naturale" per cui gli uomini debbano essersi accaparrati in modo esclusivo il dramma della guerra. In effetti sembra riconosciuto che guerra e virilità aggressiva sono due istanze culturali che si rinforzano a vicenda: per fare la guerra occorrono veri guerrieri, cioè "veri uomini", e per fare dei guerrieri occorre la guerra. La guerra diventa dunque una soluzione a quello che Margaret Mead ha chiamato "il problema ricorrente della civiltà", che è di "definire in modo passabilmente soddisfacente il ruolo maschile", in opposizione a quello femminile dedicato da sempre alle funzioni di cura e riproduttive.Ma il passaggio dalle guerre territoriali, legate all'identità nazionale dei popoli, a quella "mondiale" in cui armi tecnologiche e nucleari mettono a repentaglio l'intero equilibrio geo-politico del pianeta sfuggono a questa analisi antropologica. Tornando al film "Salvate il soldato Rayan", di cui si è discusso se fosse veramente portatore di un messaggio etico pacifista e contro la guerra, la missione non è più conquistare l'avamposto nemico o passare la prima linea, bensì mettere a repentaglio la vita di un gruppo per salvare quella di un solo uomo - il soldato Rayan - emblema di coloro che hanno la fortuna di sopravvivere alla distruttività cieca della guerra, e che sperano di essere alla fine di diventare 'bravi uomini'. E il capitano Miller, un eroe per caso che non ha la fortuna come Rayan di ritornare a casa dalla moglie e dalla madre, rifiutando di fare giustizia sommaria di un prigioniero tedesco (che poi tornerà sulla scena per mietere altre vittime) dice a coloro che lo accusano di lasciare libero il nemico, che la "sua" missione è tornare a casa sano e salvo e finirla per sempre con la guerra, e che più uomini uccide "più si sente lontano da casa": credo che questa frase sia molto più efficace di tanti proclami pacifisti, e al di là delle differenze di genere, siamo tutti alla fine d'accordo con il capitano Miller. Per andare alla rubrica recensioni "Cinema & Cinema", in cui la stessa Anna Grazia questo mese si occupa de: "La psicopatologia nel cinema tra simbolico e immaginario", recensendo: Liv Ullman, Ingmar Bergmann, "Conversazioni private";Riccardo Dalle Luche, "Transfusioni. Saggio di psicopatologia dal cinema diDavid Cronenberg".
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