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PSICOPATOLOGIA INVOLUTIVA: APPROCCIO PSICOTERAPEUTICO ALLA DIPENDENZA DELL’ANZIANO

Alessandra Berti, Patrizia Soligon

La Salpetriere era il più grande ospizio d'Europa, ricoverava circa ottomila malati dei quali da due a tremila erano vecchi. E' qui che Charcot, conosciuto forse più per le osservazioni sulle isteriche, tenne le celebri conferenze sulla vecchiaia che, pubblicate, nel 1886 ebbero un'eco enorme. A risentirne fu anche l'americano Nasher che nel 1909 dopo aver visto un ospizio differente dagli altri visitati per la longevità degli ospiti se ne chiese il perchè e quando i suoi colleghi gli risposero "dipende dal fatto che curiamo gli anziani come i pediatri curano i bambini" formulò l'ipotesi di creare una branca speciale della medicina che battezzò geriatria. Siamo tornati alle origini storiche per ritrovare i due punti di partenza delle nostre considerazioni: psichiatria e terza età, assistenzialismo e regressione.

Rispetto agli inizi del secolo, oggi, a fronte di un graduale aumento della vita media, il National Institute of Mental Health rileva negli individui al di sopra dei 65 anni un’incidenza della psicopatologia pari a 240 nuovi casi ogni 100.000 abitanti.

Per dare consistenza clinica a questa che a tutta prima potrebbe semplicemente apparire una condivisibile opinione abbiamo considerato tra le possibili patologie psichiatriche della terza età i disturbi correlati all’uso di sostanze. Un'espressione di sofferenza psichica che, per la scarsa attenzione dedicatagli in ambito sociale e per le rilevanti risposte controtransferali che evoca nel terapeuta, è stato finora oggetto di un numero esiguo di ricerche in ambito scientifico.

Al di là di un breve inquadramento epidemiologico che tenga conto dei dati demografici in nostro possesso, le nostre osservazioni sono volte all’analisi delle strategie e dei rischi connessi al trattamento, psicofarmacologico e prevalentemente psicoterapeutico.

 

Materiale e Metodo

La nostra indagine ha avuto come oggetto di studio tutti i pazienti di età superiore ai 64 anni ricoverati presso l’Ospedale San Martino dal 1° Gennaio 1996 al 1°Gennaio 1999: tra questi sono stati selezionati i pazienti la cui diagnosi all’ingresso e/o alla dimissione fosse rappresentata da un Disturbo Correlato a Sostanze, con particolare riferimento alla Dipendenza da Sostanze ed all’Abuso di Sostanze (secondo i criteri diagnostici del DSM IV) sia che questi quadri costituissero l’unico disturbo psichico evidenziato sia in comorbilità con altre psicopatologie. Di ciascuno di questi pazienti sono state valutate alcune variabili demografiche come sesso, età, durata del ricovero, reparto di degenza ed alcuni parametri clinici come il tipo di sostanza oggetto di dipendenza od abuso, la comorbilità con altri quadri psicopatologici ed il trattamento impiegato.

Risultati

I dati ottenuti possono essere schematizzati come segue: di tutti i degenti, 220 hanno presentato un Disturbo Correlato a Sostanze: da questi sono stati esclusi 5 pazienti (2.3%) per i quali pur essendo stata formulata la diagnosi di Demenza Indotta da Sostanze, l' aver omesso di specificare il codice, ha reso impossibile una valutazione più precisa.

Dei 215 pazienti inclusi nel nostro studio, 158 (73.5%) sono di sesso maschile e 57 (26.5%) femminile.

Focalizzato l'attenzione sui pazienti in cui fosse stato diagnosticato un Disturbo Correlato a Sostanze diverso dalla Demenza Indotta da Sostanze, abbiamo osservato che l’alcool è risultato la sostanza più frequentemente oggetto d’abuso essendo responsabile di 201 casi dei Disturbi Correlati a Sostanze (93.5%). A questo primo dato macroscopico fanno seguito 9 casi di Disturbi Correlati a Sedativi-Ipnotici (4.2%), 2 pazienti (0.9%) affetti da Disturbo Correlato ad Oppiacei, 2 casi (0.9%) di Abuso di Sostanze inalanti non meglio specificate ed 1 paziente (0.5%) con una polidipendenza.

Esaminando nello specifico ciascun Disturbo Correlato a Sostanze, la Dipendenza e l’Abuso sono risultati come i più frequenti, 120 (54.8%) e 87 (39.7%) casi rispettivamente, seguiti da 12 pazienti (5.5%) affetti da Demenza Persistente Indotta da Alcool;

L’alcool è responsabile di 114 casi pari al 95% delle diagnosi di Dipendenza da Sostanze e di Abuso di sostanze in 79 pazienti (90.8%).

I sedativi-ipnotici rappresentano in ordine di frequenza la seconda classe di sostanze maggiormente implicate nei disturbi diagnosticati essendo responsabile del 3.3% (pari a 4 pazienti) dei casi di Dipendenza e del 5.7% (5 casi) degli Abusi.

Entrambi i Disturbi Correlati ad Oppiacei evidenziati sono rappresentati da Dipendenza, mentre parliamo di Abuso sia nei due casi in cui la sostanza implicata è rappresentata da sostanze inalanti sia nel caso di quell’unico paziente in cui si è evidenziato un poliabuso.

Rispetto al reparto di degenza, abbiamo preso in considerazione i pazienti ricoverati in reparti di neurologia e psichiatria e per quanto concerne le altre cliniche ci siamo riferiti più genericamente a medicina-chirurgia: da quanto esaminato è risultato che il 72.1% (155) dei pazienti è stato ricoverato proprio in quest’ultimo tipo di reparto, mentre il 17.2% (37 pazienti) ed il 10.7% (23 pazienti) ha avuto un ricovero in ambito psichiatrico o neurologico rispettivamente.

Dei 37 pazienti ricoverati presso il reparto psichiatrico, 35 (94.6%) presentavano un Disturbo Correlato ad Alcool, 2 ad Oppiacei (5.4%) ed uno a Sostanze Inalanti.

 

Conclusioni

Complessivamente, rapportando le osservazioni relative all’Ospedale Generale con quelle riguardanti il reparto di Clinica Psichiatrica del Dipartimento di Scienze Psichiatriche dell’Università di Genova, si è potuta notare una sottostima della patologia Dipendenza-Abuso di Sostanze, in modo particolare di sostanze ipnotico-sedative. Questa patologia, infatti, non è quasi mai segnalata nella diagnosi di dimissione o comunque è ritenuta secondaria rispetto a complicanze di tipo organico, mentre è noto come richieda periodi di degenza prolungati e conseguentemente maggiori costi di gestione. E’ probabile che questo errore di valutazione sia in parte imputabile agli stereotipi culturali che vedono l’invecchiamento come un’inevitabile perdita soggettiva ed obiettiva sul piano fisico, psicologico e sociale, e l'abuso come una negazione del passato idealizzato che svanisce e la ricerca di una dipendenza regressiva, risultato della totale rinuncia all’investimento nel presente e nel futuro. In quest’ottica le problematiche di ordine psichico quali ansia e depressione (motivo di ricorso all’utilizzo di benzodiazepine) vengono viste come fisiologico accompagnamento all’età senile e non considerate fra i possibili patterns diagnostici.

Basandoci sull’esempio dei casi riscontrati nel nostro reparto, abbiamo individuato i livelli fondamentali di intervento con finalità terapeutiche che potrebbero rientrare in quelle che si è portati a chiamare "linee guida" di comportamento per la gestione ed il trattamento del paziente anziano.

Iniziamo con l'identificare alcune specifiche che riguardano il ricovero e la prescrizione farmacologica per lasciare in ultimo l'approccio psicoterapeutico. Un ordine scelto esclusivamente in rapporto al nostro esempio clinico visto che la ricerca in questione è avvenuta in ambito ospedaliero e su pazienti in cui la dipendenza psichica si è espressa concretamente nell'abuso di sostanze.

Iniziamo dal ricovero in ambito ospedaliero che abbiamo visto dovrebbe essere utilizzato come occasione per avviare un corretto trattamento ma soprattutto come momento diagnostico utile per smascherare una patologia surrettizia e frequentemente ignorata.

Il secondo punto è quello che riguarda la terapia farmacologica. Le benzodiazepine rappresentano i farmaci maggiormente oggetto di trattamento e abuso, sia perché ampiamente prescritti anche dal medico di base, sia perché facilmente reperibili e spesso gestiti dal paziente in modo autonomo. Un primo intervento dunque può essere volto al controllo delle prescrizioni, che devono comunque essere secondarie alla formulazione di una corretta diagnosi: patologie psichiatriche di rilievo, infatti (prima fra tutte il disturbo depressivo dell’umore), si presentano non di rado in età senile con sintomi quali ansia e disturbi del ritmo sonno-veglia che spesso inducono all’utilizzo di farmaci ansiolitici e ipnotico-sedativi. Se è noto infatti che nel disturbo d’ansia in cui sia presente secondariamente una deflessione del tono dell’umore l’utilizzo in monoterapia di una benzodiazepina risulta efficace sia sulla sintomatologia ansiosa che su quella depressiva, negli anziani in cui il disturbo dell’umore venga diagnosticato come primario trovano indicazione elettiva i farmaci antidepressivi. Per ciò che riguarda invece la terapia farmacologica nell’ambito del ricovero, due sono i problemi fondamentali che si presentano con questi pazienti, vale a dire la necessità di sostituire i farmaci oggetto di abuso e l’eventuale utilità di farmaci placebo. Per quanto riguarda il primo punto, visto il riscontro frequente di comorbilità con disturbi dell’umore, essenzialmente dello spettro depressivo, il trattamento più indicato sembra essere orientato prevalentemente verso l’impiego di farmaci antidepressivi in associazione alla psicoterapia. Questi farmaci rappresentano il presidio di elezione per contrastare i segni e sintomi di astinenza da Benzodiazepine ed inoltre l’indicazione alla terapia antidepressiva è giustificata dalla presenza di disturbi depressivi misconosciuti presenti in tali pazienti. L’uso del placebo, spesso dimostratosi efficace in questi casi, rimane, come sempre, un dilemma etico e deontologico, anche a rischio di manifestazioni avverse dovute alla sospensione del farmaco d’abuso. A sostegno dell’inutilità di tale impiego va ricordato uno studio di confronto in doppio cieco fra alprazolam e placebo in una popolazione anziana che ha documentato come gli effetti indesiderati rilevati nel gruppo trattato con la BDZ fossero presenti soltanto nelle prima due settimane di trattamento e come, alla quarta settimana, gli effetti indesiderati fossero prevalenti nel gruppo trattato con placebo.

L'ultimo punto è quello che più ci interessa data la nostra formazione professionale: la psicoterapia del paziente giunto alla terza età.

Le opinioni rispetto alle indicazioni per una psicoterapia nel paziente anziano sono discordanti: la riduzione della prospettiva di sopravvivenza e la dipendenza rendono più difficile avviare e mantenere un trattamento psicoterapeutico ma il vero ostacolo non è l'età bensì la limitazione delle capacità cognitive e dell'autonomia personale causata dalla comorbilità con patologie somatiche. La stessa cultura psicoanalitica ha dagli albori escluso il paziente anziano solo in rapporto a questi limiti "l’età - scrive Freud - ha importanza nella scelta dei malati da sottoporre a trattamento analitico, in quanto nelle persone vicine o al di là dei cinquant’anni viene di solito a mancare la plasticità dei processi psichici, sulla quale la terapia fa assegnamento" e che "…nelle persone molto anziane si riscontra una sorta di inerzia psichica: tutti i processi, tutte le relazioni e tutti i rapporti di forza appaiono immutabili, fissati ed irrigiditi e si assiste ad un esaurirsi, per una sorta di entropia psichica, delle capacità ricettive".

Nella nostra esperienza terapeutica escludere a priori un trattamento psicoterapeutico individuale improntato ad un modello teorico psicodinamico solo in base all'età è un grave errore terapeutico da evitare se non si vuol arrivare a pensare che gli unici trattamenti possibili siano farmacologici e assistenziali.

Sicuramente la psicoterapia dell'anziano prevede che non vengano scotomizzate nè l'età del paziente e tanto meno un bisogno di fondo di dipendenza, in un certo senso fisiologica che come abbiamo detto nell'introduzione avvicina l'anziano al bambino pur senza permetterne la sovrapposizione.

Oltre a tenere conto dei dati di realtà un intervento di questo tipo vede modificati gli obiettivi dal momento che lo scopo non sarà quello di abbattere le difese ma al contrario quello di ristabilire un senso del sè positivo, evitando per quanto possibile la dipendenza e mantenendo un buon livello di funzionamento.

E’ esperienza comune come il progressivo indebolimento dell’Io e dei meccanismi di difesa faccia aumentare le attenzioni rivolte al corpo, e induca il paziente a frequenti e tormentose richieste di visite mediche e specialistiche, così come il ricorso alla negazione o alla regressione può far sì che l’anziano adotti meccanismi ipercompensatori fittizi, mirati ad ostentare una salute ed una sanità che sono invece compromesse. Ma se la micromaniacalità è da considerarsi una condizione di miglior funzionamento sociale, quando ci si scontra con una negazione onnipotente che induce l'anziano ad ignorare il decadimento fisiologico, o con l’ottimismo irreale ancorché con la razionalizzazione ed il distacco che rendono complesso il rapporto con il terapeuta. A tutto ciò va aggiunta la negazione della dipendenza stessa, anche da parte dei familiari, ed il senso di onnipotenza ed autosufficienza che la sostanza stessa crea nel paziente, aiutandolo apparentemente a recuperare una ormai labile autostima.

Ovviamente non ci si possono nascondere i possenti ostacoli transferali capaci di nullificare i propositi terapeutici:

- l'ipercorribilità narcisistica del rapporto transferale ("sei troppo giovane, non puoi capire") determinata nel paziente dalla paura del declino, dal senso di inferiorità e dipendenza che inevitabilmente viene a provare verso il terapeuta ("non sarò mai più come te").

- l'idealizzazione del terapeuta e l'instaurarsi di un transfert magico basato sull'aspettativa di un cambiamento che riporti al quo ante ("solo tu puoi curarmi e farmi tornare ad essere come te"). Il terapeuta è soggetto di intense istanze idealizzanti, pretenziose, intolleranti ed inevitabilmente distruttive legate a desideri narcisistici immaturi e regressivi.

- il transfert erotico tanto più frequente quanto più il terapeuta non tiene in debito conto del bisogno di dipendenza e della solitudine in cui si trova il paziente anziano. Questi fattori specifici associati a quelli propri della condizione psicoterapeutica come l'essere in due e non più soli, parlare di sè e sentirsi ascoltati costituiscono una miscela transferale esplosiva.

Spesso però il fallimento psicoterapeutico o l'interruzione del trattamento o ancora considerare come unica via terapeutica quella farmacologica vanno ricondotti alla complessa situazione controtransferale: nel terapeuta il paziente anziano rievoca le temute angosce di morte, rinforzate dall’attuale cultura individualista e tanatofobica. Il paziente induce nel terapeuta il ricordo della mamma ma non quella dell'infanzia, giovane e accudente, bensì quella vecchia, grinzosa e piena d'odio dal momento che non può pensare ad altri che non a sè.

Mueller a proposito degli ostacoli controtransferali dice: "E’ col contatto con questi pazienti che il terapeuta dimostrerà se ha preso distanza sufficiente dalla sua coscienza medica e dal suo narcisismo professionale. Si vedrà se ha appreso la capacità di rinunciare e se può affrontare con serenità e coraggio la legge ineluttabile della vanità della vita umana.", vale a dire il terapeuta che abbia la capacità di non toccare le difese, soprattutto la negazione quando questa genera una accettabile micromaniacalità che è per l'uomo alla fine della sua vita un puntello vitale (Rossi, 1986).

Concludiamo riportando un caso clinico sicuramente di conoscenza comune, quello del vecchio Re Lear che ormai ottantenne si trova a dover dividere il suo regno, abdicare e vedere salire sul suo trono un nuovo re, una situazione che genera confusione e disorietamento e che riportata all'attuale nosologia rientra in una reazione da disadattamento o in un disturbo post traumatico da stress, due delle situazioni psicopatologiche che più frequentemente spingono l'anziano a cercare un trattamento.

(La scena si apre con il vecchio Lear che entra accompagnato e seduto su una poltrona)

Cordelia: Ahimè, è lui! Proprio ora l'hanno incontrato.......Cosa può la sapienza dell'uomo per ridargli il senso di cui fu privato?( Lear ha perso l'orientamento spaziale e temporale e non ricorda nulla di quanto è accaduto nelle ultime ore) Chi l'aiuta si prenda tutta la mia ricchezza.

Dottore: I mezi ci sono signora la nutrice della natura è il riposo, di cui egli manca e per poterlo provocare in lui esistono molte erbe efficaci il cui potere chiude gli occhi all'angoscia.......(l'associazione con le nostre benzodiazepine è scontata)

Lear: No, no, no, ! Vieni Andiamo in prigione. Noi due da soli canteremo come due uccelli in gabbia...Così vivremo e pregheremo e canteremo e ci racconteremo anche storie, e rideremo (L'anziano che può scegliere preferisce mantenere la dipendenza anche dalla persona e la scena shakespeariana a questo punto si sovrappone a quella rappresentata nel dipinto di Rubens Pero e Cimone: che ci riporta al patto di dipendenza e sostegno narcisistico tra terapeuta e paziente "io ti terrò in vita, tu sei l'unico a potermi salvare")

Globalmente comunque si può ravvisare un’utilità del trattamento psicoterapeutico, associato a quello psicofarmacologico, se l’obiettivo che ci si pone non è la modificazione della struttura di personalità, ormai consolidata, ma un concreto appoggio nella programmazione dei progetti futuri, volto anche a coinvolgere, dove possibile, il nucleo familiare.

 

 

 

Bibliografia:

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Rossi R., Il lamento di Nestore. Fantasmi della vecchiaia e fantasmi di dipendenza, da Minerva Psicogeriatrica, vol. 1, num.1, giugno 1986

Rozzini R., Trabucchi M., La depressione nell’anziano, UTET Periodici, Torino, 1996

Shakespeare RE LEAR Garzanti 1991

Vampini C., Bellantuono C., L’ansia negli anziani. Aspetti clinici e farmacologici, da Giornale Italiano di Psicopatologia, vol.6, num.2, pagg.209-221, giugno 2000

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