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PSICHIATRIA PUBBLICA E LEGGE 180: CONSIDERAZIONI STORICHE E PROSPETTIVE FUTURE di PIERLUIGI BOTARELLI MARCO BINELLI Summary
Reorganization of the italian public psychiatric system consequent to
emanation of Law 180/1978 led to, in practice, a great degree of dishomogeneity
in results between the different local structures in our country. The historical
examination of the situational determinants may aid in evidencing how complex
and articulate operative factors, which also regard more general contextual
aspects like the social, cultural and political ones, are at the basis
of the phenomenon. According to the authors, it is necessary that influence
of the said factors be counterbalanced by the development of an adequate
professional culture, which take this into account and operates in an integrative
sense. The current phase of profound reorganization of the N.H.S. in Italy
might otherwise favour an enhanced divergence between the various local
structures, with unpredictable negative effects on the whole psychiatric
institutional system in our country.
Riassunto
La riorganizzazione delle istituzioni psichiatriche pubbliche italiane
conseguente all'emanazione della Legge 180/78 ha comportato nella pratica
una notevole disomogeneità di risultati tra le diverse realtà
locali del nostro paese. L'esame storico delle determinanti di questa situazione
può aiutare a mettere in evidenza come alla base della stessa siano
articolati fattori operativi complessi che riguardano anche aspetti contestuali
più generali, come quelli di tipo sociale, culturale e politico.
E' necessario, a parere degli autori, che l'influenza di tali fattori sia
controbilanciata dallo sviluppo di una adeguata cultura professionale che
ne tenga conto e che operi in senso integrativo. L'attuale fase di profonda
riorganizzazione del S.S.N. potrà altrimenti favorire una ancor
maggiore divergenza strutturale tra le varie realtà locali, con
effetti che non potranno che essere penalizzanti per l'intero sistema istituzionale
psichiatrico del nostro paese.
PSICHIATRIA PUBBLICA E LEGGE 180:
CONSIDERAZIONI STORICHE E PROSPETTIVE FUTURE
Se si vuole comprendere meglio il problema dell'operatività dei
Servizi di Psichiatria Pubblica nell'attuale quadro organizzativo all'interno
del Sistema Sanitario Nazionale, e nei suoi possibili sviluppi futuri,
è necessario effettuare un passo indietro nel tempo al fine di esplicare,
sia pure in maniera sommaria, la fondazione e lo sviluppo di questi a partire
dalla nota e discussa L. 180/78.
Di questa legge si è già detto tutto il bene e tutto il
male possibili.
Un giudizio autorevole di carattere critico, a soli sei anni dall'emanazione,
venne formulato da L. Ancona (1984), il quale mise in evidenza come tale
legge avesse spinto verso "un'unica direzione, quella della de-manicomializzazione
globale, ignorando totalmente le realtà cliniche delle malattie
mentali di media e lunga scadenza, negando il carattere specialistico dei
disturbi della mente, dimenticando la funzione didattica delle facoltà
mediche, delegando ai governi regionali lo svolgimento di un compito per
cui essi non hanno alcuna competenza formale né alcuna risorsa finanziaria.
La legge si è imposta il compito impossibile di stabilire una nuova
cultura dall'oggi al domani".
Gli anni successivi all'introduzione della legge mostrarono, nei fatti,
il grave disagio che questa aveva indotto nel campo istituito della cura
del disagio mentale : "...si stabilì una grande confusione...lo
standard dell'assistenza andò scemando"(ib.). E i pazienti,
dimessi e abbandonati alle loro famiglie, furono "frequentemente rigettati
da genitori e parenti, trovarono rifugio solo nelle istituzioni per cronici,
più facilmente nelle sale di attesa delle stazioni o anche sui marciapiedi.
Molti semplicemente sparirono e molti altri fecero fiorire le cliniche
private convenzionate"(ib.).
D'altra parte si deve rilevare che la 180/78 contrassegnò, in
Italia, il superamento del criterio "custodialistico" nel trattamento
delle malattie mentali, e allineò il nostro paese a tutti gli altri,
europei e non, che sin dagli anni Cinquanta avevano dichiarato superato
il concetto che il malato mentale dovesse essere quasi sempre sorvegliato,
costretto e confinato, quasi sempre per intervento della magistratura,
in quanto considerabile come fonte di pericolo.
Questa impostazione, derivata dalla legge Francese del 1832, poneva
in secondo piano i diritti dell'ammalato a favore delle istanze di sicurezza
sociale, e aveva portato nel tempo "allo sviluppo di una estesa rete
di istituzioni manicomiali realizzate, in sostanza, come stabilimenti carcerari"
(ib.).
Si deve comunque riconoscere che questi luoghi di ricovero, gli Ospedali
Psichiatrici, rappresentarono storicamente il laboratorio ideale per l'allora
nascente psichiatria scientifica, nonché per la psicologia, e che
quindi in qualche modo la loro stessa esistenza contribuì a creare
le condizioni del loro stesso superamento. Inoltre queste istituzioni,
sorte nel periodo positivista e spesso progettate da grandi architetti,
garantirono per lo più ai pazienti un minimo di cure adeguate alle
loro condizioni psichiche. Il progressivo accumulasi di conoscenze sulla
mente e sulle sue malattie portò poi gradualmente a capire come
in esse si verificasse assai spesso ben poco di autenticamente terapeutico.
Per di più la prolungata dipendenza dall'ambito del ricovero esponeva
massimamente i pazienti psichiatrici al rischio del sovrapporsi, alla loro
patologia mentale, dell'ormai nota psico-sindrome che le istituzioni stesse
inducono in pazienti anche di diverso tipo, favorendo e rinforzando gli
aspetti psicologici della cronicità individuale.
Le prime reazioni a questo stato di cose avvennero nel 1923 in Gran
Bretagna, e a partire dal 1930 negli Usa, dal 1953 in Germania e dal 1960
in Francia, e comportarono, assieme al declino della concezione autoritaristica
del trattamento della sofferenza mentale, anche il superamento concettuale
dell'Ospedale Psichiatrico quale luogo separato di cura, attraverso il
contemporaneo sviluppo di "strutture alternative" di terapia
(A. Bompiani, 1983). L'OMS e il WHO stabilirono nel 1976 che "una
assistenza basata esclusivamente sullo sviluppo degli O.P. è fortemente
carente sia nei presupposti umanitari, sia nelle sue realizzazioni cliniche".
L'OMS raccomandò inoltre una incisiva riduzione di numero, di dimensioni,
e una completa ristrutturazione migliorativa degli O.P., ritenuti peraltro
indispensabili purchè finalizzati ad una riabilitazione e a un recupero
al sociale dei pazienti.
Vennero così gradualmente recepiti, all'estero, i progressi faticosamente
compiuti nelle scienze psicodinamiche ad opera delle ormai numerose e diverse
scuole teorico-metodologiche, le quali illustrarono il mutuo, stretto ed
articolato rapporto esistente tra gli individui ed il più vasto
ambiente comunitario che li circonda, e finalmente corretta la divaricazione
dall'ambiente sociale che gli ammalati psichici, e spesso anche gli operatori
psichiatrici, si erano trovati a condividere nel mondo separato dell'istituzione
manicomiale.
"In Italia, dopo alcune proposte legislative di riforma succedutesi
senza andare in porto sin dai primi anni Cinquanta, si verificò,
con la L. 431/68, un primo tentativo di superare i rigori custodialistici
della legislazione psichiatrica vigente dal 1904. La legge riduceva la
dimensione degli O.P., istituiva divisioni di psichiatria negli ospedali
generali, avanzava elementi di riabilitazione psicologica, introduceva
il principio dell'ammissione volontaria a scopo diagnostico e terapeutico,
eliminava l'annotazione del malato nel casellario giudiziario (!) e promuoveva
l'istituzione di centri di Igiene Mentale sul territorio. Qualche anno
più tardi la Clinica delle malattie nervose e mentali veniva divisa
nella Clinica neurologica e in quella psichiatrica" (ib.).
"Le cose si muovevano tuttavia ancora lentamente rispetto agli
altri paesi occidentali, e faceva soprattutto fatica ad affermarsi il concetto
che il malato mentale poteva e doveva essere curato fuori dal ghetto"(ib.)
ad opera di servizi costruiti a misura dei suoi effettivi bisogni, compresi
anche quelli di salvaguardia e di maturazione psicologica. "Il prolungarsi
delle incertezze favorì, a un certo momento, il passaggio delle
competenze decisionali dal piano amministrativo-sanitario a quello politico"
(ib.).
Anche se probabilmente sarebbe stato in ogni caso necessario servirsi
di questa strada per modificare lo stato delle cose, e ciò anche
a causa del fatto che il conservatorismo proprio delle culture istituite
si è avvertito, per ragioni storiche, spesso assai più forte
nel nostro paese rispetto ad altri, tuttavia "a questo slittamento
si sovrappose l'ideologizzazione forzata del problema e tutto assunse,
alla fine, un andamento troppo rapido, portando all'intempestiva emanazione
di una legge che avrebbe dovuto cambiare radicalmente lo stato delle cose"
(ib.), ma che non teneva conto né della mancanza delle idonee strutture
alternative, né della relativa carenza di risorse umane e culturali.
La L.180 fu recepita all'interno della L.833/78, che istituiva il S.S.N.
e stabiliva la costituzione, da parte degli organi di governo regionale,
di appositi servizi di psichiatria territoriale, ai quali furono conferite
strutture e personale in precedenza appartenenti alle amministrazioni provinciali,
a cui facevano capo gli O.P., e alle istituzioni pubbliche che si occupavano
dei malati, come l'I.P.A.B. Ciò produsse, nel Lazio, la L.R. 49/83,
e nelle altre regioni provvedimenti dagli analoghi contenuti. In base a
tale legge vennero istituiti i Centri di Salute Mentale, servizi a struttura
dipartimentale che, localizzati a livello delle singole USL, ebbero il
compito sia di gestire l'emergenza che nel frattempo si era venuta a produrre,
che quello di realizzare nella prassi i nuovi modelli di trattamento delle
malattie mentali, ancora per lo più estranei al tessuto sociale,
culturale ed economico del nostro paese. In tali circostanze gli O.P. italiani,
già da tempo in declino, finirono per svuotarsi del tutto non solo
dei pazienti, ma anche del personale più preparato e motivato, che
fu naturalmente attratto dalle nuove prospettive di cura, e si venne così
a determinare un ulteriore grave degrado dell'assistenza per i degenti
rimasti, mentre il degrado stesso, spesso scambiato per la causa, fu spesso
portato a giustificazione dei provvedimenti presi. L'insieme dei servizi
alternativi all'ospedalizzazione si rivelò nel frattempo costoso
e di non facile realizzazione, necessitando di personale numeroso, diversificato
ed altamente qualificato, nonchè dello sviluppo di una apposita
cultura che garantisse nel tempo le coordinate di terapeuticità
delle nuove prassi metodologiche. Nell'assenza di una centralità
culturale e professionale condivisa le istituzioni psichiatriche si trovarono
quindi a dover dipendere dai contesti locali per la loro stessa sopravvivenza,
e ad esserne fortemente influenzate. Tra gli aspetti negativi intrinseci
della legge è inoltre da segnalare il fatto che in essa e nelle
sue evoluzioni applicative finirono per essere trascurati i complessi problemi
connessi allo sviluppo e all'individuazione precoce dei disturbi mentali,
di notevole importanza ai fini di una strategia preventiva. Questo portò
alla separazione dai nascenti dipartimenti delle competenze psichiatriche
in tema di infanzia e di età evolutiva, che furono escluse e assorbite
nei servizi materno-infantili delle USL, con conseguenti difficoltà
di integrazione funzionale. In tempi successivi lo stesso fenomeno si produsse
anche per l'emergente fenomeno delle tossicodipendenze, che divenne a sua
volta oggetto di specifiche strutture di cura. Infine la legge trascurò
il problema dei manicomi giudiziari, strutture che si trovano così
ancora oggi operanti in una realtà che si situa al di là
della visibilità sociale.
I servizi psichiatrici delle USL nacquero quindi nelle circostanze più
sfavorevoli possibili, afflitti da forti carenze strutturali e culturali
e condizionati da una legge che imponeva una lettura della sofferenza mentale
in termini esclusivamente sociali e che ostacolava, di fatto, la ri-creazione
delle strutture idonee alla gestione dei casi più impegnativi, sia
per ciò che riguardava i problemi legati alle acuzie degli esordi
che per quelli connessi ai concetti di cronicità, di riabilitazione
e di supporto. Né fu possibile ricevere un valido sostegno allo
sviluppo dei servizi da parte del mondo accademico e universitario, vuoi
perché questo si trovò ad essere escluso, nei fatti, da quella
che era diventata una vera e propria rivoluzione "privata", vuoi
per la relativa distanza e separatezza che esso andò a sua volta
progressivamente acquisendo nei confronti del S.S.N.
Le tanto vantate comunità terapeutiche, mito di una ideologia
priva di propri contenuti e reminiscenza storica di modelli di cura già
riproposti nei secoli passati, rimasero allora in molti casi per lo più
sulla carta, a causa del loro alto costo e dell'elevato livello di professionalità
e di integrazione richiesto affinchè non si rivelassero altrettanto
inefficaci degli O.P., mentre tra gli operatori dei gruppi istituzionali
si diffuse, nel migliore dei casi, un clima da "terra di frontiera",
nel quale il disagio e le frustrazioni professionali apportate da misure
che tenevano in scarso conto gli elementi costitutivi della malattia mentale
e della relazione terapeutica veniva assai spesso attribuito ad un esterno
indistinto, il "sociale" appunto, vissuto come espulsivo, disinteressato
o indifferente, ed invece anch'esso spesso impreparato, confuso e a sua
volta affetto da numerosi problemi evolutivi.
Nonostante questo stato di cose cominciarono nel tempo a farsi sentire,
in maniera disomogenea per le diverse realtà locali, anche gli aspetti
positivi della nuova situazione. Infatti la 180/833 costrinse, sia pure
in maniera radicale, gli operatori dei diversi gruppi istituzionali a confrontarsi
con le concezioni che furono, negli altri paesi, alla base di importanti
cambiamenti nei trattamenti terapeutici, dando con ciò un enorme
impulso al rinnovamento dell'intera cultura psichiatrica italiana.
Inoltre la moderna strutturazione dipartimentale che fu conferita ai
servizi, all'interno dei distretti autonomi delle USL, rese possibile,
in qualche modo, la necessaria continuità di rapporto dell'ambiente
terapeutico degli stessi con il paziente, con la sua famiglia e con la
realtà del tessuto sociale locale, contrastando quei fattori che,
nella passata esperienza manicomiale, si erano rivelati come potenti rinforzi
per i meccanismi della cronicità istituzionale, quale, ad esempio,
quello del mutuo e prolungato distacco tra il malato ed il suo ambiente
di origine. Le famiglie, in precedenza "espropriate" della loro
componente di follia e rese mute, ricominciarono a parlare, rendendo possibili
importanti esperienze terapeutiche e professionali. L'ammalato non venne
più "sequestrato" in un luogo di cura, spesso anche fisicamente
distante e di non facile accesso, nel quale poteva facilmente dimenticare
ed essere dimenticato, ma bensì il luogo della cura si spostava
verso di lui, nel suo territorio, nel suo ambiente, nell'attualità
dei suoi rapporti conflittuali o simbiotici.
Soprattutto vi è da dire che la psichiatria e gli psichiatri
stessi uscirono con la L.180 dal ghetto manicomiale dove erano stati anch'essi
confinati per tanto tempo, acquisendo una identità ed una visibilità
professionale e sociale in precedenza non possedute. Si aprì quindi
così anche una fase, ancora attuale, di rinnovamento dei ruoli professionali,
di sviluppo e di sperimentazione dei nuovi modelli di cura che, in alcune
privilegiate realtà locali, ha prodotto risultati di ottimo livello.
Nella maggior parte dei casi, però, questo sviluppo è
stato notevolmente ostacolato e rallentato sia dalla persistenza dei pregiudizi
ideologici e interpretativi a cui si è accennato, sia, e soprattutto,
dalla situazione in cui le stesse USL versavano a causa della loro eccessiva
autarchia gestionale. La giovane psichiatria "territoriale",
già afflitta da una sorta di debolezza congenita sia perchè
privata della tutela delle proprie tradizioni, sia perché pesantemente
condizionata nelle parole e nei fatti da quell'ideologia che ne aveva consentito
la prematura nascita, finì, in molti luoghi, per marginalizzarsi
e per essere marginalizzata.
Non è stato allora spesso possibile far nascere e organizzare
adeguatamente le necessarie strutture, e si è finito con il non
preoccuparsi, ad esempio, di ricoprire i numerosi posti vacanti nelle piante
organiche, o di incentivare il necessario sviluppo delle varie professionalità,
quale pre-requisito indispensabile per un lavoro che si proponeva, nel
metodo, una dimensione multi-disciplinare.
Dai più scomodi margini tutto il personale valido ha cercato
di fuggire, come dimostra l'elevatissimo uso, in questo campo, dell'istituto
della mobilità. In altre parole nella psichiatria pubblica si è
andati spesso incontro, molto più facilmente che in altre specializzazioni
sanitarie, ai fenomeni di degrado istituzionale causati dai malanni strutturali
a carattere localistico che hanno afflitto l'intero S.S.N.
Malgrado tutte le difficoltà nella maggior parte del Paese qualcosa
di positivo si è prodotto ed è rimasto operante, e si potrebbe
forse pensare che oggi, diminuita la pressione dell'emergenza scaturita
dall'improvvisa scomparsa delle strutture manicomiali, sia arrivato, anche
per la psichiatria pubblica, il momento di compiere ulteriori ed importanti
passi avanti nell'integrazione, nel consolidamento e nello sviluppo di
ciò che nel frattempo si è acquisito nel campo dell'organizzazione
istituzionale a livello locale.
Purtroppo però le cose non sono così semplici. Vi sono
innanzitutto da considerare i problemi "interni" alla psichiatria
italiana stessa, quali il permanere di fratture e divisioni legate alle
antiche dispute teoriche e pratiche che resero il terreno fertile per le
prese di posizione ideologiche. Questi particolari elementi del campo istituzionale
psichiatrico, assai poco elaborati e, per così dire, "affettivi"e
"avversativi", hanno in passato enormemente intralciato lo sviluppo
pratico degli apporti delle scienze psicodinamiche verso una organizzazione
avente funzioni terapeutiche. Inoltre la relativa separatezza funzionale
tra il mondo universitario e il S.S.N. ha ancora di più facilitato,
nei servizi psichiatrici così come nelle cliniche universitarie,
il permanere e il cristallizzarsi di questi operatori psichici latenti,
provocando spesso un arroccamento difensivo delle parti sulle rispettive
posizioni. A tali problemi l'intera istituzione psichiatrica dovrebbe trovare
il coraggio di dare una risposta, partecipando unitariamente ad un confronto
e ad un dibattito interni senza che vi sia il bisogno di chiedere all'esterno
istituzionale interventi confusivi e di tipo riduzionistico, come quello
dovuto, ad esempio, all'azione di alcune parti politiche.
Per quello che riguarda invece i problemi per così dire "esterni"
all'istituzione psichiatrica, si può facilmente osservare che la
disomogeneicità di livello tra le varie culture ed organizzazioni
dei servizi psichiatrici a livello locale si produce in maniera analoga
a quella esistente per le istituzioni sanitarie più in generale.
Questo fenomeno presenta degli aspetti di complessità e non può
essere semplicemente ridotto a fattori "puntiformi", e cioè
circostanziali e limitati a singole realtà, dal momento che la sua
distribuizione si avverte macroscopicamente su almeno due differenti dimensioni
: nella prima di queste essa segue un andamento regionalistico che, analogamente
ai fattori socio-economici, tende a privilegiare il Nord del paese rispetto
al Sud, mentre nella seconda segue un andamento che tende a privilegiare
i comuni e le province più ricchi e popolosi all'interno di una
stessa regione. Mentre la seconda di queste dimensioni sembra per lo più
riflettere la dinamica della distribuzione delle risorse in generale destinate
alla psichiatria, commisurate per loro natura alla densità di popolazione
e alla domanda di salute, la prima permette invece di ipotizzare la presenza
operante di fattori sociali ed economici di disturbo che tendenzialmente
impediscono la crescita organizzativa delle istituzioni psichiatriche.
A questi fenomeni generali "di contesto" dei problemi connessi
alla "territorializzazione" dei servizi psichiatrici bisogna
aggiungere quello della progressiva diversificazione dei bisogni della
popolazione dei grandi centri metropolitani rispetto a quelli della popolazione
residente in territori a minore densità abitativa. Anche questo
particolare aspetto dei problemi in discussione ha a che fare con le dinamiche
sociali ed economiche, ed è anch'esso relativo alla compresenza,
nel tessuto sociale di ogni Regione, di realtà locali aventi caratteristiche
evolutive differenti. Il disagio metropolitano, che risulta oggi in primo
piano anche in molti altri campi della vita istituzionale, rende conto
della difficoltà di dare nuove risposte politiche ad una società
che è mutata più velocemente di quanto abbiano potuto fare
le sue istituzioni. Questo tipo di problema richiede scelte strategiche
e apposite misure di ristrutturazione e rinnovamento delle matrici legislative
che regolano le relazioni su cui sono fondati i collettivi sociali, e la
psichiatria non può certo farsi carico di un compito che spetta
alle istituzioni politiche. Risulta quindi chiaro che alcuni dei problemi
della psichiatria istituzionale, in maniera analoga a quelli dell'istituzione
sanitaria più in generale, non possono che essere risolti all'esterno
dell'istituzione psichiatrica stessa, nell'ambito più vasto del
mondo sociale a cui essa appartiene ed a cui è in qualche modo riuscita
a ricongiungersi. Per queste disfunzioni occorre una cura sociale, a cui
sono preposte le varie istituzioni dello Stato, e gli psichiatri, tramite
i loro rappresentanti, dovrebbero semmai riuscire a farsi sentire maggiormente
a livello della totalità degli organi politici, amministrativi e
sindacali, se non fossero anch'essi in una situazione incompiuta di transizione,
ed inoltre ancora divisi, intimiditi e confusi dalle discussioni, dai clamori
e dai rancori che hanno accompagnato il brusco recupero del mondo separato
della follia alla visibilità sociale.
Un elemento specifico legato al fenomeno della disomogeneità,
che è importante esaminare ai fini di questa discussione, è
quello del tipo, dell'entità e della distribuzione delle situazioni
di "emergenza" in campo psichiatrico. E' necessario chiarire
che il termine di "emergenza" viene normalmente utilizzato in
campo sanitario per indicare peculiari situazioni cliniche a carattere
di estrema urgenza che impongono determinati interventi, assolutamente
prioritari e non ordinari, rispetto alla conservazione della vita individuale
o collettiva. Il concetto di emergenza nell'istituzione psichiatrica è
innanzitutto più diluito e, in quella italiana in maniera particolare,
pur mantenendo nel suo sfondo il fondamento tecnico-sanitario da cui è
tratto, tuttavia lo oltrepassa ampiamente, arrivando a comprendere in esso
anche gli aspetti connessi all'emergenza intesa come urgenza del fatto
familiare e sociale.
In base a quanto detto, si può facilmente dedurre che, accanto
ad una certa quota di "emergenze" di tipo strettamente tecnico,
in buona parte prevedibili anche in base a fattori statistici, esiste in
psichiatria una certa quota di "emergenze" che di "urgente"
possiedono prevalentemente, o soltanto, il connotato familiare e sociale.
La relativa prevalenza di quest'ultimo tipo di "emergenza" ha
condizionato fin dagli esordi, per i motivi innanzi esposti, i servizi
psichiatrici territoriali. Ovviamente laddove si sono potute preservare
e creare le opportune risorse strutturali, e quindi dispiegare al meglio
quelle umane e finanziarie impegnate, questo tipo di emergenza è
oggi avvertito in misura minore, mentre nelle realtà locali dove
le strutture non sono state attuate e le risorse o non sono impiegate o
vengono sciupate, la gestione di uno stato continuo di pseudo-emergenza
legato a una carenza di risposte possibili continua a sottrarre energie
agli obiettivi dell'organizzazione terapeutica, ponendoli a volte artificiosamente
in una posizione di secondo piano. Per queste situazioni, oggi frequenti,
non si vede altra soluzione possibile che quella, propedeutica alla possibilità
di un adeguato sviluppo delle culture psichiatriche locali, di porre rimedio
alle carenze in precedenza esposte, e cioè adeguare le piante organiche
dei servizi alle loro effettive necessità, realizzare le strutture
previste dalla legge, facilitare il ricambio e la formazione del personale.
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CANOSA R. (1979), Storia del manicomio in Italiadall'Unità ad oggi. Ed. Feltrinelli, Milano.
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