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PSICOANALISI E PSICOTERAPIA:
UNA REVISIONE

di Merton M. Gill


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Prima parte di due parti

Prima parte: Introduzione; Rassegna storica e situazione attuale; Il transfert e la sua analisi; L'influenza involontaria sul transfert; La neutralità

Seconda parte: La nevrosi transferale regressiva; La novità dell'esperienza del processo terapeutico; Il controllo del transfert; Applicabilità della tecnica analitica in setting diversi; Appendice (la storia di questo articolo); Riassunto; Bibliografia


Introduzione di Paolo Migone

In questo classico lavoro di Gill del 1984, citato più volte anche in varie liste di discussione, viene proposta una revisione del modo tradizionale di intendere la differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, cercando di risolvere alcune contraddizioni che erano rimaste irrisolte in questo annoso dibattito. Gill, che compie questa revisione alla luce della sua ridefinizione del concetto di transfert operata negli ultimi15 anni della sua vita (Gill, 1979, 1982, 1983, 1993, 1994), propone una concezione molto allargata di psicoanalisi, applicabile ai setting più diversi. Secondo questa revisione, non vengono ampliati solo quelli che lui chiama criteri "estrinseci" della psicoanalisi (alta frequenza delle sedute, uso del lettino, selezione dei pazienti, ecc.) ma anche i tradizionali criteri "intrinseci" (cioè interni alla teoria) che lo stesso Gill aveva proposto in un altro suo lavoro classico uscito nel 1954, esattamente 30 anni prima, a suo tempo considerato un punto di riferimento. I criteri intrinseci che Gill aveva proposto nel 1954 erano essenzialmente quattro: la analisi del transfert, la neutralità dell'analista, la induzione di una nevrosi di transfert, e l'uso privilegiato della interpretazione. Qui invece Gill mantiene solo il primo di questi criteri, la analisi del transfert (gli altri dipendono da questo), ma intendendo il transfert in un modo diverso, alla luce della sua nuova revisione teorica che si può definire in senso "interpersonale" o "relativistico". Come è facilmente intuibile, le implicazioni teoriche, pratiche e anche sociologiche e istituzionali di questa revisione sono notevoli, tuttora discusse dalla comunità psicoanalitica (si pensi ad esempio alla possibilità di definire come "psicoanalisi" tecniche terapeutiche che prima venivano definite come "psicoterapia psicoanalitica", e a quello che ciò può significare per il training e le istituzioni deputate alla formazione).

La edizione originale di questo articolo, dal titolo "Psychoanalysis and psychotherapy: a revision", è uscita sull'International Review of Psychoanalysis, 1984, 11: 161-179 (la versione inglese di questo articolo, così come di tutti gli articoli usciti fin dal1920 nelle riviste The International Journal of Psychoanalysis, TheJournal of the American Psychoanalytic Association, The PsychoanalyticQuarterly, The Psychoanalytic Study of the Child, The International Review of Psychoanalysis, e Contemporary Psychoanalysis, sono consultabili e scaricabili da un CD-ROM di Psychoanalytic Electronic Publishing [PEP]). La versione italiana qui pubblicata è tratta dal volume a cura di Franco Del Corno & Margherita Lang, Psicologia Clinica. Vol. 4: Trattamenti in setting individuale (Milano: Franco Angeli, 1989, pp. 128-157; seconda edizione: 1999). La traduzione italiana, da me rivista in alcuni passaggi, è di Franco Del Corno e Angelina Spinoni. Ringraziamo Ilse Judas (la vedova di Merton Gill), la casa editrice Franco Angeli di Milano, e l'Institute of Psycho-Analysis di Londra per i permessi di pubblicazione. Nella presente edizione vengono aggiunte due parti, da me tradotte ("Appendice: la storia di questo articolo", e "Riassunto") che erano nell'edizione originale del 1984 e che non sono state pubblicate prima in italiano.

Per una discussione critica di questo lavoro all'interno di una storia del dibattito sulle differenze tra psicoanalisi e psicoterapia, e per ulteriori approfondimenti sul profilo culturale biografico di Merton Gill (che a suo tempo fu una figura di punta del gruppo di David Rapaport, e autore di contributi che sono stati considerati pietre miliari della psicoanalisi, in particolare della Psicologia dell'Io), rimando al mio libro Terapia psicoanalitica (Milano: Franco Angeli, 1995), capitoli 4 pp. 69-90 (sintesi del dibattito storico e posizione di Gill), e cap. 13 pp. 221-229 (profilo biografico di Gill). Per una reinterpretazione del pensiero di Gill, può essere utile anche consultare il mio articolo "La differenza tra psicoanalisi e psicoterapia: panorama storico del dibattito e recente posizione di Merton M. Gill" (Psicoterapia e scienze umane, 1991, XXV, 4: 35-65), e, su Internet, i miei lavori "Esiste ancora una differenza tra psicoanalisi e psicoterapia psicoanalitica?", "Ancora sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia", e "Terapia o ricerca della verità? Ancora sulla differenza tra psicoanalisi e psicoterapia" (in inglese, si può consultare il capitolo "A psychoanalysis on the chair and a psychotherapy on the couch. Implications of Gill's redefinition of the differences between psychoanalysis and psychotherapy" del libro in memoria di Merton Gill, a cura di Doris K. Silverman & David L. Wolitzky, Changing Conceptions of Psychonalysis: The Legacy of Merton M. Gill, Hillsdale, NJ: Analytic Press, 2000, pp. 219-235; trad. spagnola: El psicoanálisis en el sillón y la psicoterapia en el diván. Implicaciones de la redefinición de Gill sobre las diferencias entre psicoanálisis y psicoterapia. Intersubjetivo. Revista de Psicoterapia Psicoanalitica y Salud, 2000, 2, 1: 23-40).

Infine, nel caso questa teorizzazione risultasse difficile o non immediatamente declinabile nella clinica, allo scopo di fornire una facile esemplificazione rimando ad un breve caso clinico pubblicato nel sito della rivista Gli argonauti, dove, in modo per certi versi paradossale e coerentemente con questa revisione di Gill, vi è un esempio di "psicoanalisi sulla sedia" e di "psicoterapia sul lettino", in cui viene mostrato come il lettino (da molti considerato un criterio importante della psicoanalisi) non sia sufficiente in quanto tale a caratterizzare il processo analitico.


PSICOANALISI E PSICOTERAPIA: UNA REVISIONE

di Merton M. Gill

Il divario tra psicoanalisi e psicoterapia è, secondo la convinzione degli psicoanalisti, così ampio che ogni tentativo di riesaminare il rapporto tra le due tecniche viene facilmente sospettato di voler indebolire l'unicità della psicoanalisi. Ritengo che ciò possa valere anche per questa revisione che propongo, nonostante essa giunga alla conclusione che il divario tra le due tecniche - considerate in base alla descrizione teorica e pratica che ne darà - sia ancora più grande di quanto normalmente si creda. La ragione di ciò può dipendere dal fatto che rischio di fare una grande confusione, occupandomi, qui, di due argomenti vasti e importanti ben distinti l'uno dall'altro. Il primo consiste in una riconsiderazione, con il suggerimento di alcune modificazioni, dei criteri intrinseci in base ai quali viene comunemente definita l'analisi. Il secondo dipende dal fatto che i cambiamenti nella mia concettualizzazione dei criteri intrinseci estendono significativamente il campo dei criteri estrinseci, all'interno del quale i primi possono essere applicati. Così può sembrare, dapprima, che io abbandoni l'ambito psicoanalitico, a causa delle modificazioni da me proposte nella concettualizzazione dei criteri intrinseci e, in un secondo momento, che lasci cadere la distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia perché questa distinzione è, secondo il parere più diffuso, fondata sulla differenza - necessaria anche se non sufficiente - tra i criteri estrinseci delle due tecniche.

Non posso limitarmi ad una discussione del mio cambiamento di opinione relativamente al rapporto tra psicoanalisi e psicoterapia e della mia convinzione che la tecnica psicoanalitica possa essere utilizzata entro una sfera più estesa di criteri estrinseci; queste due affermazioni dipendono, infatti, dai cambiamenti che intendo proporre nella concettualizzazione dei criteri intrinseci. Spero di minimizzare tale possibile confusione trattando prima delle modificazioni relative ai criteri intrinseci, poi delle ripercussioni che queste comportano sui criteri estrinseci.

Per criteri intrinseci (con cui l'analisi è comunemente definita) intendo: la centralità dell'analisi del transfert, la neutralità dell'analista, l'induzione di una nevrosi di transfert regressiva e la risoluzione di questa nevrosi con la sola tecnica dell'interpretazione o, almeno, principalmente con l'interpretazione [Nota 1]. Per criteri estrinseci intendo sedute frequenti, il divano, un paziente relativamente ben strutturato (cioè che si pensa possa essere analizzabile) e uno psicoanalista ben preparato.

Nota 1: Questi criteri intrinseci potrebbero essere divisi in tecniche - neutralità, analisi del transfert e interpretazione - distinte da ciò che si prevede esse inducano - una nevrosi di transfert regressiva e la risoluzione di questa nevosi soprattutto attraverso l'interpretazione - ma credo che non sia necessaria una differenziazione per chiarire la mia tesi, anche perché impegnarmi in questo argomento potrebbe creare una diversione. Leo Stone (1954) usa i termini funzionale e formale per ciò che io chiamo rispettivamente intrinseco ed estrinseco.

Sottolineo fin dall'inizio che faccio una distinzione tra tecnica analitica e analisi. Intendo dire, con ciò, che la tecnica analitica può venire usata anche se non viene portata a termine una analisi completa. L'idea contraria è che si tratta di un problema tipo "tutto o niente"; che cioè non si possa parlare di analisi a meno che la tecnica preveda di arrivare ad un'analisi completa.

Anche se sosterrò che la psicoanalisi (cioè la tecnica psicoanalitica), come la definirò, è applicabile a tutti i tipi di psicopatologia, voglio soprattutto ribadire che essa è applicabile a quei pazienti, di solito considerati analizzabili, per i quali i fattori di tempo e denaro precludono il setting usuale di un'analisi. Sottolineo questo punto all'inizio perché non voglio che la mia discussione sia confusa dal problema dell'applicabilità della psicoanalisi, che tratterò in seguito, a psicopatologie più gravi (anche se credo che sia giustificato sperimentarla in queste patologie).

Rassegna storica e situazione attuale

Oggi, così come nel 1954, scrivo di psicoanalisi e di psicoterapia dal punto di vista della psicoanalisi. Alcuni anni dopo che Freud ebbe sviluppato la psicoanalisi, le psicoterapie iniziarono ad essere permeate progressivamente da esperienze psicoanalitiche, finché diventò sempre più urgente chiarire la diversità tra le due tecniche e, al tempo stesso, riconoscere anche che in parte esse coincidono.

Gli analisti che hanno contrapposto nel modo più netto la psicoanalisi alla psicoterapia hanno probabilmente fatto ricorso all'argomento secondo il quale il transfert viene analizzato dalla psicoanalisi, ma soltanto manipolato dalla psicoterapia. D'altra parte, coloro che sono stati maggiormente colpiti dalle sovrapposizioni tra le due tecniche sostengono che questa formulazione le oppone una all'altra in modo troppo rigido. Essi hanno notato che le psicoterapia si differenziano nella misura in cui il transfert è interpretato - e talvolta è interpretato a fondo - e nella misura in cui esso è manipolato - e talvolta non è manipolato affatto. A quest'ultimo argomento, che riavvicina la psicoanalisi alla psicoterapia, coloro che insistono sulla distinzione tra le due ribattono che i criteri intrinseci, nella loro forma più generalmente ammessa, possono applicarsi solo alla psicoanalisi.

Nel mio scritto del 1954 mi proponevo di insistere sulla diversità e, al tempo stesso, di riconoscere che le due terapie sono un continuum. La mia conclusione, secondo la quale ci sono conflitti "relativamente autonomi" che la psicoterapia può risolvere, mi portava a dire che la distinzione tra le due tecniche non dovrebbe essere esagerata; alla fine della mia ricerca, esprimevo il timore di poter essere frainteso, dicendo da un lato che la psicoterapia non può fare ciò che fa l'analisi, e dall'altro che in effetti essa lo fa. Insistevo sul fatto che, nelle nostre psicoterapie, avremmo dovuto introdurre in misura maggiore la tendenza non-direttiva, caratteristica della psicoanalisi. Affermavo, d'altra parte, che se è possibile ridurre la differenza relativa al modo in cui psicoterapia e psicoanalisi gestiscono il transfert, non è tuttavia possibile eliminarla. Concordavo anche sul fatto che solo la psicoanalisi è caratterizzata dai criteri intrinseci, che ho accettato nella loro classificazione tradizionale. In effetti, ho lasciato aperta la possibilità al fatto che il lavoro analitico possa essere attuato con criteri estrinseci anche non ottimali.

Il problema del rapporto tra psicoanalisi e psicoterapia è, in pratica, ancora più importante oggi di quanto non lo fosse nel 1954 a causa delle difficoltà concrete nel sostenere i criteri estrinseci dell'analisi comunemente accettati. Molti analisti sono costretti a vedere pazienti con minore frequenza, sia perché questi non si possono permettere di venire più spesso, sia anche a causa della concorrenza di terapie più brevi che sono diventate di moda. Per qualsiasi analista, l'urgenza di questo problema è collegata alle condizioni della sua pratica professionale. Il problema diventa: fino a che punto possiamo ampliare i criteri estrinseci prima che l'analista debba decidere per la psicoterapia piuttosto che per la psicoanalisi?

Oggigiorno, gli analisti si interrogano molto più che nel 1954 su quanto rigidamente i criteri estrinseci devono essere mantenuti per la praticabilità dell'uso della tecnica analitica, anche se, a proposito dei criteri intrinseci, sono state sollevate meno domande.

Quella che è considerata la frequenza necessaria sta man mano diminuendo. Freud iniziò con sei volte a settimana, ma scoprì che poteva lavorare cinque volte a settimana allorché le trenta ore che pensava di dividere tra cinque pazienti dovettero bastare per sei (Kardiner, 1977). Oggi, quattro sedute sono comunemente accettate. Freud disse che per casi poco gravi, o come continuazione di un trattamento già in fase avanzata, bastavano tre giorni alla settimana. Qualsiasi restrizione di tempo superiore a questa non porta alcun vantaggio né al dottore né al paziente; e, all'inizio di una analisi, essa è praticamente fuori questione (Freud, 1913). Tuttavia, molti analisti affermati prendono un caso in analisi con una o due ore a settimana, perché il paziente non si può permettere di più o perché l'analista ha soltanto quel tempo a disposizione, sperando di aumentare poi la frequenza.

Il problema della frequenza è stato discusso relativamente poco, tranne che in rapporto alla proposta di Franz Alexander (1956) e di alcuni suoi colleghi di influenzare il transfert diminuendo o aumentando la frequenza delle sedute. Qualunque sia il valore che una simile tecnica può avere, concordo con l'opinione comune secondo la quale essa vìola il principio centrale dell'analisi: l'analisi del transfert piuttosto che la sua manipolazione; questa tecnica dovrebbe perciò essere classificata come psicoterapia e non psicoanalisi. Come anticipo di ciò che seguirà, tuttavia, pongo due domande. Primo: l'alterazione della frequenza può essere compatibile con la tecnica analitica, se al tempo stesso il significato di questa alterazione viene analizzato a fondo nel transfert? Alexander (1954, p. 699) ha parlato di analisi del transfert che, secondo lui, necessitava di un cambiamento della frequenza, ma non ha detto nulla riguardo all'analisi delle ripercussioni che la manipolazione stessa ha sul transfert. Secondo: è possibile che proprio l'insistenza sul fatto che è necessaria una certa frequenza per condurre un'analisi sia già, se non viene interpretata, una manipolazione del transfert simile alla tecnica per la quale Alexander è stato così severamente criticato?

Spesso si accenna solo di sfuggita al problema della sedia o del divano. Di solito vengono presentati punti di vista come il seguente: non si deve forzare il paziente a stare sul divano. Lo sprofondarsi nel divano, cioè il desiderio eccessivo di un paziente di usare il divano, più che altro può essere indizio di serie resistenze. Un'analisi non è incrinata se il paziente talvolta si alza (l'Uomo dei topi, nei primi tempi, percorreva lo studio a grandi passi), ma è importante analizzare il disagio sia nello sdraiarsi che nel sedersi. Si ammette che il divano può essere preferito per la comodità dell'analista più che per quella del paziente. I critici dell'analisi amano sottolineare che Freud disse che non poteva sopportare di essere fissato per otto ore al giorno (Freud, 1913). In generale, si è concordi nel dire che mentre il divano ha dei vantaggi e l'incapacità di sdraiarsi è indizio di un problema irrisolto, il suo uso può essere difensivo, e non è assolutamente essenziale.

Nei nostri testi si è discusso a lungo del problema della patologia del paziente. Una minoranza di analisti ritiene che un'analisi rigida possa (e in realtà dovrebbe) essere condotta perfino con i pazienti più gravi, mentre la maggior parte ritiene che, come minimo, siano obbligatorie importanti alterazioni della tecnica intesa in senso stretto.

Il problema del training del terapeuta sembra al di là di qualsiasi discussione. Come può uno che non ha fatto un training analitico condurre un'analisi? Ma quanto training è necessario? Non sarebbe meglio che il terapeuta cercasse di usare meglio che può taluni elementi tecnici fondamentali, piuttosto che cercare di evitarli del tutto? Tornerò su questo punto quando avrò posto una base migliore per trattarlo. Sosterrò che la definizione di tecnica analitica, alla quale alla fine arriverò, dovrebbe essere insegnata a tutti gli psicoterapeuti; quanto bene essa sarà usata dipenderà dal loro training e dalla loro disposizione naturale per questo lavoro.

I cambiamenti che proporrò non si limitano a una semplice estensione della raccomandazione del 1954, secondo la quale, nelle nostre psicoterapie, dovremmo introdurre maggiormente la tendenza non-direttiva tipica della psicoanalisi. Se mi limitassi a questo, infatti, accetterei implicitamente la concezione abituale dei criteri intrinseci della tecnica psicoanalitica. Il tentativo di esaudire i criteri intrinseci dominanti, allargando contemporaneamente il campo dei criteri estrinseci, potrebbe di fatto aggravare i difetti della concezione tradizionale cui ho accennato sopra. Una simile pratica si osserva talvolta nei principianti, che si sforzano di imitare quello che considerano il corretto atteggiamento di ritiro emotivo dello psicoanalista. Il suggerimento di allargare il campo dei criteri estrinseci, all'interno dei quali si possono applicare i criteri intrinseci, dipende quindi strettamente dalle modificazioni che proporrò relativamente a questi ultimi.

Assieme ai cambiamenti nella concettualizzazione dei criteri intrinseci, proporrò da una parte che la psicoanalisi e la psicoterapia vengano opposte più nettamente, e dall'altra che il campo dell'applicabilità della tecnica psicoanalitica (più che di quella psicoterapeutica) si allarghi. Intendo dire che la tecnica analitica, come la definirò, dovrebbe essere usata il più possibile anche se il paziente viene meno spesso di quanto non accade di solito nella psicoanalisi, usa la sedia piuttosto che il divano, non è per forza affidato ad un trattamento di durata relativamente lunga, è più malato del paziente di solito considerato analizzabile, e anche se il terapeuta ha relativamente poca esperienza. In altre parole, suggerirò che si restringano decisamente le indicazioni per la psicoterapia psicoanalitica e che venga praticata in modo elettivo l'analisi come io la definirò.

La lunghezza e la natura di queste osservazioni introduttive sono il risultato di quelli che considero come i fraintendimenti che le precedenti presentazioni delle mie idee hanno provocato; sto cercando di prevenire o almeno di ottenere una più lunga dilazione del giudizio da parte del lettore.

Credo che la teoria dominante, la pratica della psicoanalisi e della psicoterapia e il rapporto fra di esse non siano cambiati molto dal 1954. La revisione che propongo è una conseguenza del mio cambiamento di opinione sul transfert e sulla sua analisi; passo subito a riassumerlo. Questo riesame mi ha portato a proporre modifiche nella concezione di ognuno dei criteri intrinseci che avevo accettati nel 1954. In questo lavoro, non ho intenzione di riesaminare i contributi dei miei numerosi predecessori che, allo stesso modo, hanno riconsiderato uno o più di questi criteri intrinseci.

Ma queste modifiche possono essere concettualizzate all'interno di una prospettiva più ampia di quella del transfert. Infatti, è soprattutto l'interazione interpersonale tra paziente e analista a richiedere una riconcettualizzazione. Relativamente all'aspetto interpersonale della situazione analitica, in genere si ritiene che la percezione di esso da parte del paziente venga distorta dalla sua organizzazione intrapsichica. Io suggerisco, invece, che l'integrazione fra l'organizzazione intrapsichica del paziente e la sua esperienza circa la relazione interpersonale debba inizialmente essere trattata come una formulazione razionale, in un contesto relativistico e prospettico della realtà interpersonale.

Il problema si collega ad un'altra vecchia questione della psicoanalisi: una questione spesso discussa in termini di diversità tra la percezione della situazione analitica "a una persona" o "a due persone". Ritengo di contribuire, con la mia proposta, a una scomposizione delle conseguenze che derivano dal prendere in seria considerazione il punto di vista "a due persone" nel contesto del punto di vista classico della tecnica analitica. Un modo per spiegare il nuovo punto di vista, nella sua applicazione alla situazione analitica, è che setting e comportamento dell'analista hanno un'influenza, che varia da un grado minimo a un massimo, sulle manifestazioni degli schemi dell'interazione interpersonale, schemi potenzialmente organizzati a livello intrapsichico e che, in questo senso, influiscono sul transfert. Un altro modo di spiegare il problema in termini di tecnica analitica è che, senza questa concezione del transfert, il setting e il comportamento dell'analista possono diventare veicoli di una suggestione involontaria che, se non viene controllata, esercita degli effetti che non possono essere riconosciuti o corretti.

Il transfert e la sua analisi

Il primo criterio intrinseco della psicoanalisi che prenderò in considerazione è la centralità dell'analisi del transfert. E' esatto dire che la psicoanalisi mira ad un'analisi del transfert la più completa possibile, mentre la psicoterapia no, ma questa formula acquista nuovi significati se considerata alla luce dei cambiamenti relativi al mio concetto di transfert ed alla sua analisi. Li ho presentati in un articolo (Gill, 1979) e in un ampliamento di tale articolo in una monografia (Gill, 1982). Qui posso solo riassumere le mie conclusioni:

1. Il concetto di un transfert "incontaminato" è un mito, perché l'espressione del transfert è sempre influenzata da un'interazione "qui e ora" tra l'analista e il paziente. Ma ancor più, la natura dell'interazione interpersonale è tale che il transfert avrà sempre qualche grado di verosimiglianza, nei termini di qualcosa che è collegato all'analista. Questo qualcosa comprende cose che l'analista non ha fatto ed anche ciò che egli ha fatto. L'opinione comune è che il paziente distorce la situazione, costruendola nei termini dei suoi modelli intrapsichici. Io dico, invece, che il comportamento del terapeuta fornisce verosimiglianza all'esperienza del paziente. I ruoli relativi di questi due contributi sono diversi da caso a caso. La cosa importante è di non accostarsi a qualsiasi caso singolo con una convinzione predeterminata rispetto alla sua importanza relativa;

2. L'esame del transfert dovrebbe iniziare con un'attenta chiarificazione di ciò che prova esattamente il paziente, considerando tutte le possibili influenze implicate nella situazione corrente. Il terapeuta non deve mai fingere di capire sempre perfettamente il paziente, soprattutto se questi è vago, indefinito e sfuggente;

3. Normalmente non si ammette che il transfert è sempre presente perché, sia da parte del paziente che da parte dell'analista, la resistenza a essere coscienti di ciò porta all'apparire del transfert in forma dissimulata, in associazioni non manifestamente legate al rapporto corrente. Chiarire ciò che il paziente prova richiede di individuare queste allusioni e renderle esplicite. Questa attività, a mio avviso, può essere designata come interpretazione della resistenza alla consapevolezza del transfert, in contrapposizione all'interpretazione della resistenza alla risoluzione del transfert;

4. Dopo aver chiarito il tipo di esperienza che il paziente ha del rapporto, l'analisi dei transfert dovrebbe incominciare con la ricerca di ciò che rende tale esperienza almeno parzialmente verosimile per lui. Ciò comporta uno spostamento di accento: dall'enfasi con la quale abitualmente si sottolinea che l'esperienza del paziente è una distorsione della situazione, all'enfasi sulla possibilità che tale esperienza possa essere assunta come un possibile strumento di comprensione della situazione [Nota 2]. La coazione a ri-sperimentare e a ri-attualizzare il passato è la motivazione principale dell'attenzione selettiva con cui il paziente vive il presente, man mano che costruisce la propria verosimile comprensione di esso;

Nota 2: Il lavoro per la risoluzione dei transfert dovrebbe, analogamente, trovare i propri fondamenti nell'esperienza del paziente circa le sue relazioni trascorse (Hoffman, 1983).

5. Un ruolo più importante, nella risoluzione del transfert, è giocato dal fatto che il paziente arriva a capire che questo significato verosimile della situazione è, appunto, soltanto verosimile e non inequivocabile; cioè; che la sua esperienza della situazione è basata, in grado maggiore o minore, su determinanti che sono all'interno di sé;

6. La consapevolezza che esistono simili determinanti, probabilmente, prima o poi, porterà a elementi del passato che ne potranno spiegare la genesi. Tale spiegazione rientra nella nota categoria della risoluzione del transfert attraverso l'esame e la rivalutazione del passato;

7. Il paziente non si limita ad esperire la situazione analitica in un modo che corrisponde alle sue preconcezioni, sia consce che inconsce. Egli si comporta anche in modo tale da far sì che il terapeuta giustifichi queste preconcezioni, dando loro, di volta in volta, maggiore verosimiglianza. Il grado di inconsapevolezza del terapeuta circa il modo col quale egli è vissuto dal paziente può benissimo essere un metro della sua risposta inconscia alla pressione di quest'ultimo; egli può così arrivare a comportarsi in modo tale da giustificare sempre più e rendere plausibili le preconcezioni del paziente. Sandler (1976) ha descritto questo fenomeno come la "risonanza di ruolo" (role responsiveness) dell'analista. Detto altrimenti, il paziente stimola il controtransfert;

8. Aggiungo un punto sul controtransfert, al quale, nella mia monografia, ho dedicato poca attenzione. L'aiuto più importante al terapeuta, nello scoprire il suo controtransfert, è dato dall'interpretazione di esso da parte del paziente, in gran parte attraverso riferimenti mascherati nelle sue associazioni. Langs (1978) e Hoffman (1983) hanno descritto il paziente come un interprete dell'esperienza dell'analista. Questa uguaglianza tra il punto di vista di Langs e quello che io e Hoffman condividiamo non deve oscurare una differenza cruciale. Langs ritiene che il paziente percepisca correttamente l'intento inconscio dell'analista; noi, invece, vediamo il paziente costruire soltanto un punto di vista più o meno verosimile delle motivazioni dell'analista.

Una critica frequente al mio modo di intendere il transfert e la sua analisi è che esso sia contrario a ciò che molti altri identificano come l'essenza dei metodo psicoanalitico, cioè il recupero della storia dei paziente. Ritengo che non sia una questione di opposizione ma di priorità tecnica. Ho parlato dell'importante ruolo giocato, nella risoluzione del transfert, dalla consapevolezza che l'esperienza che il paziente ha della situazione è verosimilmente, ma non inequivocabilmente, determinata dalla attualità della situazione analitica; con ciò, non intendevo sminuire il ruolo della consapevolezza del paziente e dell'integrazione della sua storia nella risoluzione del transfert. Tuttavia, credo proprio che l'attenzione prioritaria verso il recupero della storia possa condurre a importanti effetti involontari sul transfert. Tale priorità è spesso un allontanamento difensivo, da parte del paziente o dell'analista o da parte di entrambi, dal disagio risvegliato spiegando, esaminando e interpretando "qui e ora" i fenomeni dei transfert. Nella misura in cui questo è vero, il recupero del passato può esercitare il suo effetto per mezzo di una suggestione involontaria.

Il problema che sto trattando ha una lunga storia nella tecnica analitica, in un'altra controversia (purtroppo e inutilmente polarizzata) circa l'importanza relativa dell'esperire e del ricordare. Mi aspetto che mi si dica che do poca importanza al passato, come hanno fatto S. Ferenczi e 0. Rank nella loro monografia del 1925 - più di cinquant'anni fa - intitolata The Development of Psychoanalysis. Mentre non sminuisco il contributo del ricordare, ritengo che un'analisi nella quale l'attenzione è rivolta soprattutto al transfert espresso nel qui-e-ora (ivi incluso l'apporto dell'analista) sarà molto più libera dagli effetti duraturi della suggestione involontaria, di quanto non lo sarà un'analisi nella quale l'attenzione è rivolta soprattutto all'interpretazione genetica, che può aggirare il transfert. L'analisi del transfert può essere definita come un tentativo di capire l'esperienza attuale del paziente in rapporto all'analista (comprese le sue fonti verosimili qui-e-ora), così che le fonti dell'esperienza passata, i desideri e i conflitti possano essere chiariti e resi più consci, e si arrivi ad una integrazione flessibile del passato e del presente.

L'influenza involontaria sul transfert

Gran parte del comportamento dell'analista conduce il paziente a un'interpretazione verosimile delle motivazioni del terapeuta; tale comportamento è però involontario. Inizio la mia spiegazione richiamando due casi di Freud: in primo luogo, il caso di Dora (Freud, 1905). Freud si è difeso dalla possibile critica che non avrebbe dovuto trattare di questioni sessuali intime con una giovane donna, osservando che un tale comportamento non è necessariamente libidinoso o nocivo. L'argomento è valido. Tuttavia, non sarebbe stato plausibile, per Dora, interpretare il manifesto interesse di Freud per la sua vita sessuale - in concomitanza con la relativa mancanza di interesse per quella che era la sua preponderante preoccupazione consapevole - come una variante più sottile dell'interesse sessuale che Herr K. mostrava per lei? Il secondo caso è quello dell'Uomo dei topi (Freud, 1909). Non sarebbe stato plausibile, per l'Uomo dei topi, interpretare l'interesse di Freud circa i dettagli della tortura del topo come una forma - essa stessa - di tortura? Freud è stato criticato (Kanzer, 1980) per aver influenzato il transfert cercando di indovinare quale fosse la tortura. Possiamo dedurre, dal diniego esplicito di Freud di volerlo torturare, che egli stava cercando di scacciare qualsiasi sensazione del genere da parte dell'Uomo dei topi.

Non sto dicendo che Freud non avrebbe dovuto indagare il contenuto mentale di Dora e dell'Uomo dei topi. Non concordo con coloro che credono che un simile materiale possa emergere spontaneamente nella libera associazione, e ritengono quindi di poter aspettare che esso affiori in tal modo, così che il paziente non abbia alcuna base razionale per imputare all'analista un'intenzione sessuale o aggressiva [Nota 3].

Nota 3: Quanto direttamente e apertamente qualcosa deve essere espressa, prima che si possa dire che è "emersa"? Questo è sempre stato un argomento scabroso, nelle discussioni cliniche, a causa delle differenze di valutazione, in ogni caso particolare, circa il ruolo svolto dall'inferenza nel concludere che qualcosa è presumibilmente presente in modo mascherato.

Io sostengo, al contrario, che tale accusa è inevitabile, sia a causa delle molteplici interpretazioni alle quali il comportamento umano, di per sé, si presta, sia perché il paziente è predisposto dal proprio passato a un'interpretazione selettiva del presente. L'analista non dovrebbe perseguire tale impraticabile via di scampo sulla base di una premessa erronea relativa alla natura della situazione analitica; egli dovrebbe, piuttosto, dedicare tutte le proprie energie alla ricerca delle indicazioni implicite, rivelatrici delle accuse che il paziente sta elaborando. Queste imputazioni dovrebbero essere portate allo scoperto, interpretando la loro plausibilità alla luce del qui-e-ora, allo scopo ultimo di chiarire quanto il paziente ci metta di suo, derivandolo dal passato, il là-e-allora.

Ecco un esempio tratto da un recente lavoro di Rangell (1979). Egli scrive che, per un certo periodo di tempo, la risposta di un paziente ad ogni interpretazione o alla conquista di un frammento di insight era "E allora?" oppure "E allora, cosa succede adesso?" o "E allora, cosa dovrei fare?" e cose simili. Rangell non descrive alcuna ricerca dei significato dell'"E allora?", ma dice che presto iniziò ad avere la sensazione che questa fosse una vera e propria ricerca di informazioni, in parte dovuta al desiderio del paziente di far sì che il suo comportamento migliorasse più in fretta, in parte volta a bloccare la progressione verso insight più dolorosi. Così fece il seguente intervento: "Lei chiede 'E allora' e non 'Perché mai'". Rangell ritiene che il paziente avesse bisogno di questo suggerimento per incentivare il progresso dell'analisi. Nega esplicitamente che il paziente sia stato rimproverato o che gli sia stato ordinato di riflettere secondo queste direttive.

Ritengo che questa negazione tradisca una consapevolezza periferica da parte di Rangell: la sensazione di essere rimproverato o che gli fosse imposto di pensare in certi termini può essere stata, per il paziente, l'effetto involontario che l'interpretazione del terapeuta ha giocato sull'espressione del transfert.

Infatti egli presenta il caso al lettore dicendo che vuole dimostrare che si deve richiedere in modo continuo al paziente di esercitare un ruolo attivo. Questo perciò era probabilmente il messaggio implicito, contemporaneamente inteso dall'analista e sperimentato dal paziente. A mio parere, Rangell non avrebbe dovuto fingere di sapere ciò che voleva dire l'"E allora?". Avrebbe dovuto cercare di capire il suo significato all'interno del transfert. Inoltre, una volta fatta la sua osservazione, avrebbe dovuto fare attenzione alle possibili ripercussioni sull'espressione del transfert.

Rangell dice che l'interpretazione ebbe successo e cita alcuni insight conseguenti relativi al rapporto del paziente con la madre. Non fornisce sufficienti dati per dire come questi insight possono avere riunito allusioni mascherate relative sia al passato del paziente che all'intervento dell'analista.

Credo che quest'esempio illustri una difficoltà tipica nel riconoscere il fatto che l'attenzione dovrebbe essere diretta a esaminare il transfert qui-e-ora; in quest'esempio, prima relativamente allo "E allora?" e poi relativamente alla risposta all'intervento, piuttosto che al là-e-allora, come è implicitamente richiesto dalla domanda "Perché?" da parte del terapeuta. Suggerisco che i ripetuti "E allora?" sono il segnale di un problema persistente e centrale del transfert, espresso nel qui-e-ora con radici nel passato, e che se questo problema non viene delucidato, il continuo lavoro analitico può ben essere sostanzialmente un'intellettualizzazione, condotta sotto l'influsso della suggestione.

Tutti gli esempi portati fin qui hanno illustrato come il paziente abbia vissuto gli interventi. Ciò che spesso non viene messo a fuoco dagli analisti è il ruolo che essi hanno giocato nelle comuni risposte transferali rispetto alle caratteristiche intrinseche del setting. Il fatto che queste caratteristiche possano essere vissute in modo molto diverso da diversi pazienti o dallo stesso paziente in momenti diversi (o anche simultaneamente) probabilmente aumenta la possibilità che l'analista consideri l'esperienza del paziente essenzialmente (o anche completamente) autodeterminata. Il divano può essere un'indicazione che il paziente non sente la necessità di preoccuparsi delle reazioni del terapeuta, o può significare che il paziente è privato dei segnali di cui ha bisogno, relativi alle reazioni dell'analista, segnali senza i quali egli ha troppa paura per parlare. Il modo in cui l'analista considera il fatto che il paziente è sdraiato condeterminerà in vario modo il fatto che il paziente viva il divano come un sollievo dalla paura di incontrare il terapeuta come suo pari, o come una sottomissione umiliante.

Il modo con cui la frequenza delle sedute è stabilita condeterminerà, più o meno, il fatto che le sedute frequenti significhino una promessa di cura senza fine o la perdita di ogni possibilità di tregua da un'implacabile invasione nella sfera privata. Allo stesso modo, una durata "aperta" del trattamento può essere una rassicurazione circa il fatto che ci sarà tempo sufficiente, ma potrebbe anche essere vissuta come una sentenza indeterminata senza possibilità di verifica. Edith Jacobson (1954) scrive:

Molti depressi sopportano quattro o anche tre sedute alla settimana molto meglio di sei o sette... Sedute quotidiane possono talvolta (sic) essere vissute come promesse seduttive troppo grandi per essere realizzate o anche come intollerabili obblighi sadico-orali, che provocano la sottomissione masochista" (Jacobson, 1954, p. 603).

Il modo con cui il terapeuta pone dei limiti condeterminerà il fatto che essi siano interpretati dal paziente come un segnale di freddezza e di austerità, come una cautela opportuna, o come lo sforzo ansioso di evitare che siano infrante le regole di una condotta analitica corretta (Stone, 1954, p. 575).

In queste possibili esperienze possiamo distinguere lo stimolo (l'essere sdraiati, per esempio) dalla sensazione del paziente; non possiamo, invece, dividere allo stesso modo l'esperienza del paziente - verosimile solo concettualmente, nella migliore delle ipotesi - in risposte verosimili relative al presente e risposte transferali legate al passato. Dal punto di vista del paziente, tutto questo è il transfert, un'unità indivisibile.

L'interazione analitica e il setting influenzano perciò, inavvertitamente, l'esperienza che il paziente ha della relazione. Freud (1919) basò esplicitamente la sua raccomandazione a proposito dell'astinenza dalle gratificazioni sostitutive che il paziente può ottenere dal apporto stesso di transfert. Si può non essere d'accordo con il consiglio di Alexander di interferire con la gratificazione dipendente, talvolta permessa dal setting analitico, diminuendola frequenza delle sedute, ma si deve apprezzare il fatto che egli riconosce questo fenomeno e consiglia di interpretarlo. Weigert (1954) discute a fondo i significati magici dei rituali del setting, anche se non pone abbastanza enfasi sulla loro analisi dettagliata nel transfert. Propongo che da queste spiegazioni si tragga una conclusione tecnica: nell'analizzare il transfert, l'analista dovrebbe prima di tutto mettere a fuoco il proprio contributo all'esperienza che il paziente ha della relazione, considerando le risposte del paziente sia agli interventi che ai diversi aspetti del setting analitico.

La neutralità

Alla luce di questa diversa considerazione del transfert, passo al secondo dei criteri intrinseci della psicoanalisi, come li ho definiti nel 1954 e come vengono solitamente accettati. Si tratta della neutralità dell'analista.

L'assunto che l'influsso del terapeuta sul transfert, sia volontario che involontario, sia evitabile si basa sul concetto di neutralità. Nella mia definizione del 1954 dissi che la psicoanalisi era condotta da un'analista neutrale. Allora mi resi conto che raccomandare la neutralità è uno sforzo (per evitare gli effetti sul transfert) che non può raggiungere il suo scopo, perché il paziente, inevitabilmente, interpreta il comportamento dell'analista in modi diversi da quelli intesi dall'analista stesso. Il rendersi conto di questo è, di fatto, un aspetto di una delle proposizioni fondamentali della psicoanalisi. Il significato che una situazione esterna ha per una persona non può mai essere determinato solo dall'esterno. L'analista cerca di evitare di comportarsi in un modo che possa essere interpretato correttamente e chiaramente come legato a qualche intento erotico od ostile; ma anche così egli non potrà mai dare per scontato che un certo comportamento da parte sua abbia un significato specifico per il paziente, sia perché non può avere una conoscenza inequivocabile delle proprie intenzioni, sia a causa del transfert. Per conoscere tale significato, deve esplorare l'esperienza del paziente. Cercando di capire il significato che il paziente attribuisce al suo comportamento, l'analista non rivela il significato da lui intenzionato, perché una tale rivelazione pregiudica l'esplorazione dell'esperienza del paziente. Se l'analista è convinto di potersi veramente comportare in modo del tutto neutrale, penserà che un paziente che interpreta il suo comportamento in modo diverso da come egli l'aveva consapevolmente inteso travisa le sue intenzioni. L'analista sarà spinto a ricercare tali effetti involontari del proprio comportamento soltanto se sarà convinto della loro frequenza ed anche del loro comparire in forme mascherate.

Ritengo che sia una parziale consapevolezza di questo punto ad aver condotto l'analista a un forte grado di riluttanza a impegnarsi in un'interazione con il paziente. E' come se cercassimo di impedire che il paziente fraintenda le nostre intenzioni, non avendo intenzioni. La convinzione che il processo analitico possieda una sorta di automaticità che si instaura una volta che esso è avviato favorisce questa riluttanza all'interazione.

Tale riluttanza comporta, però, la rinuncia a essere completamente consapevoli che, dal momento che l'analisi avviene in un contesto interpersonale, non è possibile la non-interazione. Anche il silenzio, naturalmente, è un comportamento. Ma non si può sostenere che il silenzio sia preferibile ai fini analitici perché esso è veramente neutrale. Si può intendere il silenzio come neutrale, ma lo si può anche percepire, in modo verosimile, come qualcosa che va da una crudele disumanità a una tenera preoccupazione. Non è possibile affermare che uno di questi atteggiamenti debba necessariamente essere una distorsione. Proprio perché ero parzialmente consapevole di questo fatto, nel 1954 ho suggerito che l'analista potesse almeno adottare un atteggiamento stabile di relativa neutralità, in modo da fornire una base rispetto alla quale si potessero misurare gli atteggiamenti del paziente. Ciò di cui ora mi rendo conto e che nel 1954 non sapevo ancora è che queste esperienze, inavvertitamente prodotte dall'analista non sono distorsioni del suo comportamento, perché non si può negare che esse abbiano una base razionale. Con questa consapevolezza, l'analisi del transfert prende ora un aspetto nuovo. Infatti, gli effetti involontari sul transfert possono sfuggire all'analista, persino se questi ha le migliori intenzioni; essi possono però essere riconosciuti più facilmente se l'analista è divenuto consapevole del ruolo che l'interazione qui-e-ora gioca sulle manifestazioni del transfert.


Fine della Prima parte di due parti

Prima parte: Introduzione; Rassegna storica e situazione attuale; Il transfert e la sua analisi; L'influenza involontaria sul transfert; La neutralità

Seconda parte: La nevrosi transferale regressiva; La novità dell'esperienza del processo terapeutico; Il controllo del transfert; Applicabilità della tecnica analitica in setting diversi; Appendice (la storia di questo articolo); Riassunto; Bibliografia


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