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LA STRUTTURA RIABILITATIVA DI MASONE
di
Rossella Valdrè ( Genova)
La centralità del ruolo dell'educatore.
Ho fatto questa premessa per venire al punto che mi sta più a cuore, quello degli operatori. Il personale di Masone, l'altra delle variabili a cui accennavo prima, é composto da infermieri, ausiliari, educatori professionali, due psicologhe, medici. Parte di questo personale, ad es. alcuni infermieri e tutti gli ausiliari, non avevano nessuna esperienza psichiatrica, parte aveva lavorato nelle C.T., come gli educatori e io stessa.
Questa contaminazione che dicevamo all'inizio mi pare essere un elemento potenzialmente molto creativo. Elementi diversi o addirittura antitetici tra loro sono venuti a contatto, dando vita a qualcosa di non ancora definito e codificato ma che prima non c'era: da questa condizione é possibile quella che sempre il nostro Khun chiama salto di paradigma: diventare, cioè, un altro qualcosa rispetto a quanto preesisteva. Il personale tipo' della C.T., che ha la sua centralità e la sua specificità nella relazione del pz. con l'educatore, si trova a relazionarsi con un pz. altro rispetto a quello che si aspettava e di cui aveva esperienza, un pz. appunto prevalentemente anziano, deteriorato, appiattito, riottoso ad ogni cambiamento, poco propenso alle stimolazioni, avido di cibo e di sigarette, se violento sembra senza un motivo apparente, se calmo é perché perso in un totale narcisismo, un pz. socialmente infantilizzato, che non sa scrivere, non sa leggere in molti casi, che viene portato per le strade in un mondo per lui indecifrabile, che richiede un gravosissimo accudimento fisico, in quanto parecchi sono incontinenti e vanno aiutati nella più rudimentale cura del Sé. Questo tipo di operatore psichiatrico, anche se apparentemente il più inadatto per la poca esperienza di un tale malato, si rivela nel nostro caso il più adatto a quella funzione che Schinaia chiama, con una felice definizione, di rianimazione istituzionale': ridare anima a chi non ce l'ha più o non sa più dov'è, ridare vita, o perlomeno restituire aspetti rivitalizzati contro l'appiattimento mortifero.
Quando sono stata negli ex OO.PP., a turno con gli educatori, a visitare i pazienti che avremmo accolto, mi sono accorta che giravamo quei posti con lo spirito di chi va a un museo: anche se razionalmente sappiamo che i pz. vi hanno passato gran parte della loro vita, in qualche caso tutta la vita, per noi sono stati, ad un livello più emotivo e profondo, semplicemente dei nuovi ingressi', come se fossero entrati per la prima volta in un luogo di cura (non ne ho parlato direttamente con gli educatori, ma penso possano condividere questo stato d'animo) Per noi sono pz. nuovi. Mi pare cioè di avvertire un atteggiamento di apertura inconscia', paradossalmente, frutto forse della totale ignoranza circa la storia precedente e della disponibilità ad osservare quello che succede, che é più sentito e genuino della difesa cosciente di sapere cosa ci aspetta'.
Siamo stati aiutati in questo, di nuovo paradossalmente, dalla povertà di notizie con cui i pazienti sono arrivati (non certo per inadempienza degli ultimi curanti) per cui un'intera vita era racchiusa in poche righe e in poche abitudini stereotipe, e ci siamo così trovati di fronte a pz. completamente da conoscere e da scoprire (parafrasando Bion, potremo dire che una situazione del genere, se usata creativamente, mette davvero l'operatore in condizione di essere senza memoria e senza desiderio' di fronte al pz.). Senza memoria per la mancanza di conoscenza pregressa, e senza desiderio perché ci siamo resi conto, attraverso errori e tentativi, di quanto sia facile desiderare troppo' con questi pazienti che richiedono, almeno per ora, un bassissimo e graduato livello di stimolazione: non desiderano e non cercano attivamente di fare attività, se non uscire per andare al bar, tendono a non fare anche quello che sarebbero in grado di fare, e sembrano diffidare istintivamente di chi penetri troppo il loro ritiro. In qualche caso ci é sembrato di osservare una sorta di reazione d'angoscia alla libertà, come se l'essere improvvisamente messi in condizione di esplorare un posto nuovo creare un'eccitazione angosciosa insostenibile. Ci pare che il desiderio' in senso bioniano, in questa prima fase, debba essere rivolto principalmente alla cura e al riconoscimento del proprio Sé, una cosa che forse immaginavamo scontata e che sbagliavamo a considerare sbrigativamente dequalificante.
Fare un buon lavoro, in questa fase, é insegnare ai pz. l'uso del gabinetto, il riconoscimento dei propri abiti e dei propri oggetti rispetto a quelli di un altro, dei propri confini corporei e di territorio (la propria stanza), a collocarsi nel tempo e nello spazio (imparare che giorno é, dove siamo, chi sono i diversi operatori, etc).
L'asse del lavoro, quindi, é spostato su una modalità di relazione che é essa stessa relazione ma non nei termini a cui siamo abituati col giovane psicotico o col borderline tipico delle C.T. (l'unico pz. di questo tipo, infatti, é stato dimesso). E' una relazione che potremmo chiamare basica, massicciamente impregnata di accudimento fisico, spesso non verbale (molti pz. non parlano o si esprimono con difficoltà), che viene inventata e appresa letteralmente momento per momento. Al contenimento nel senso più noto dello holding di Winnicott, qui occorre far precedere l'accudimento, che però é esso stesso contenimento. Questo vale soprattutto per alcuni disabili che, per la gravità dei loro deficit, ci mettono di fronte a richieste di attenzione particolari e per noi nuove.
La sfida é quella di ribaltare una situazione così difficile e così demotivante in un lavoro di gruppo dove, proprio per la mancanza di un assetto teorico e pratico precostituito, la creatività di ciascuno può esprimersi al massimo. Con pazienti che hanno così poco si può tentare tutto; noi abbiamo così tanto da imparare che possiamo imparare da tutti.
Sul piano operativo, questo si é tradotto in una serie di iniziative a cui abbiamo dato e daremo vita: un'attività di consulenza e formazione pressoché continua appoggiandoci agli specialisti dei vari settori (consulenza del Chiossone per i non vedenti, dell'Ente Sordomuti, del centro Epilessia), gruppi di alfabetizzazione per alcuni pazienti (alcuni sono analfabeti di ritorno), gruppi di informazione e discussione con i familiari.
Mi chiedo spesso come potremo mantenerci vivi e vivaci quanto lo siamo in questa fase. Credo che il punto essenziale stia nel preservare, lo ripeto, la centralità e la complessità del ruolo dell'educatore, in quanto figura trasversale rispetto ai bisogni dei pazienti, che proprio in virtù della sua peculiare formazione non é ancorato al momento medico o infermieristico in sé e alla gestione dell'urgenza. Questo mi pare sia il focus dove mantenere alta la tensione. La relazione paziente-educatore, se supportata dal lavoro degli altri e mentalmente supervisionata dagli psichiatri e dagli psicologi (mi riferisco qui ad un tenere a mente continuo, sul campo, non circoscritto a momenti formalizzati), é la relazione specifica della cultura di Comunità, non trasferibile in quanto tale né all'ospedale né al servizio né, tanto meno, alla deriva accuditivo-assistenzialistica dei manicomi (se non attraverso la contaminazione dei vari scomparti).
E' sperabile che l'imposizione di legge di smantellare definitivamente gli OO.PP. voglia sottendere la chiusura di una mentalità, e non semplicemente la dismissione di pazienti di cui a nessuno importa più nulla, col massimo risparmio da parte dello Stato.
Credo si sia tutti d'accordo nel non limitare il concetto di manicomio ai muri di Quarto o Cogoleto, dove peraltro esistono anche realtà che hanno lavorato più che dignitosamente, ma che manicomio può essere una famiglia, un quartiere e persino una Comunità, nella misura in cui non c'é pensiero, non c'é respiro, non si sente più il bisogno di un assetto teorico che ci supporti.
Il grosso degli sforzi andrebbe teso in questo senso. Pur in questi pochi mesi, io che non avevo mai visto un manicomio, ho intravisto da dove potrebbe germogliare: dalla tentazione di appiattirsi sulla quotidianità dell'assistenza, sia per il carico di lavoro, sia per la seduzione negativa che la patologia residuale esercita su di noi, con le sue poche richieste, anzi con l'unica richiesta di essere lasciata in pace, semplificazione massima dell'esistenza all'interno dei ritmi dell'istituzione. Il grosso dello sforzo é non dimenticare.
Quando vedo gli educatori abbattuti, dico loro che questa é un'osservazione unica, almeno nel nostro Paese; scomparsi questi pazienti, non sarà più possibile un'osservazione del genere, non vedremo più questi esiti, vedremo altre cose, ma non queste. La cosa più difficile per tutto il gruppo, me compresa e me per prima, é mantenere il cuore vigile, mantenere cioè la necessità di pensare, di fare da regista, sopportando le angherie del quotidiano, incentivando il gusto dell'osservazione rispetto all'appiattimento, il desiderio di conoscenza rispetto alla scontatezza, la curiosità rispetto alla noia, la voglia di divertirsi rispetto alla tristezza.
Per questo ringrazio gli organizzatori del convegno per avermi dato la possibilità di parlare e di confrontarci, perché solo dal confronto può nascere un pensiero originale ancorché problematico.
Diceva Leonardi che il paziente, in un manicomio, é l'istituzione; potremmo dire che il paziente, il bisognoso di cure, in una Comunità, é il gruppo di lavoro.
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