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STORIE DI UOMINI FOLLI: IMMAGINI DELLA FOLLIA E DELLA MELANCONIA NELLA ESPERIENZA GIURIDICA (secc. XIV-XVI)

di Vittorio Biotti

 

1) L'esperienza giuridica della follia

2) La storia di Giuntino da Signa (1366)

3) La storia di Lorenzo da Firenze (1572)

4) La storia di Antonio da Firenze (1602-15)

5) Note

2- LA STORIA DI GIUNTINO DA SIGNA (1366)

Ma veniamo alle nostre storie. La prima e' del 1366 ed e' tratta dall'archivio del Podesta' di Firenze (4). Giuntino di Ghino da Signa e' accusato di omicidio. Il giudice e i parenti e i testimoni si impegnano per stabilire se era davvero pazzo nel momento del crimine. Il rischio che correva era la pena di morte. In questa storia non si usano mai termini come melanconia o umore melanconico. I termini sono diversi e relativi al linguaggio giuridico del momento. Ma non abbiamo avuto molti dubbi che i comportamenti di Giuntino fossero quelli di un "melanconico" secondo le definizioni e le idee anche mediche del tempo, certo diversificate, anche fortemente, rispetto alle idee del nostro presente. Egli, si dice nei testi a verbale (che abbiamo tradotto dal latino) non riusciva mai "a stare fermo da nessuna parte", aveva sempre bisogno di muoversi, andava da un paese all'altro e spesso si nascondeva nei boschi, per giorni e giorni, non curandosi neppure del freddo crudele dell'inverno. Andava sempre scalzo come "un frate minorita", discinto e senza cappuccio. Si spogliava all'improvviso in chiesa o per strada e si metteva a camminare con le "brache in mano". Si gettava spesso nel fango "come fanno i porci", ed era solito andare per Borgo San Lorenzo frustandosi come un flagellante e percuotendosi e gettando pietre in preda forse ad oscuri rimorsi,a bisogni di penitenza e di espiazione che doveva esprimere. A volte "lo avevano visto predicare per strada come fosse Gesu' Cristo". Aveva l'idea fissa che vi fossero malie e fatture contro di lui. Piu' di una volta si era gettato dalla finestra o dal tetto della sua casa, e i fratelli spesso avevano dovuto tenerlo legato. Temeva sempre di essere avvelenato, e un fratello aveva l'ingrato compito di masticare prima il cibo a lui destinato. Ma Giuntino non si  rassicurava nemmeno cosi'. I fratelli pensando che fosse posseduto da qualche cattivo spirito lo avevano portato un giorno, a dorso d'asino, all'Abbazia di Vallombrosa perche' li' c'erano alcune reliquie di santi e si potevano trovare degli abati esorcisti. Arrivato all'Abbazia Giuntino era ri- masto a lungo genuflesso e composto davanti all'altare, "quieto e scuro in viso", ma poi un abate li aveva tutti rimandati a casa dicendo: " egli non ha cattivi spiriti ma e' furioso e insensato e smemorato".

Questa e' una storia che trovo straordinaria. E' uno dei pochissimi casi giudiziari tramandati nei quali un soggetto folle parla, e le sue parole sono in qualche modo registrate da qualcuno nei registri processuali. E, ci piace pensare, non tanto per evidenziarne la follia, ma perche' sono frasi di grande intensita' emotiva. Le parole di Giuntino a volte sembrano preghiere, invocazioni: "perche' mi tenete qui, lasciatemi andare via"; a volte sono balbettii come quelli di un piccolo bambino: "baba baba baba". Altre volte Giuntino sembra piu' in contatto con la sua follia, cerca di dare parole alla sua immaginazione, ai suoi pensieri piu' dolorosi. Dice al fratello Gregorio:" le uova e le cose che mi hai dato quest'anno a quanta amarezza sono pervenute !", oppure: "Gregorio io sono accusato dalla Inquisizione, io credo di essere apostata", e anche: "di quale morte devo morire, perche' mi provocate tanti stenti ?", oppure: "uccidetemi voi con un coltello! Io venni con loro, tagliatemi il capo e non fate strazio di me". Non vorrei commentare queste frasi e le lascio alla immaginazione e alla sensibilita' del lettore. Siamo nel 1366. Nelle aule dei tribunali non si parla di melanconia, questo termine non e' quasi mai usato. Nonostante che il pensiero medico dalle sue origini e per tutto il Medioevo avesse cercato di individuarla, descriverla e curarla. Questa e' una considerazione che ci pare interessante, e su cui riflettere. I termini usati sono altri, e finore e' sempre stato cosi' nel linguaggio giuridico quotidiano: furiosus, mentecaptus, demens, fatuus, insanus. Termini in sostanziale sinonimia, senza stabili e nette differenze di significato. La follia e' un concetto giuridico fortemente unitario. Vi e' una diagnosi di identita' almeno nel sistema giuridico. Il concetto giuridico di follia e' determinato dalle regole e dalle necessita' del pensiero giuridico, dalle sue compatibilita' nonostante fenomeni e follie diverse, differenziazioni concettuali e di comportamento palesi, parole diverse. La sola demarcazione chiara e' magari tra follia e "stupidita'", tra follia e forme molto attenuate che non preentano tra l'altro pericolo per la tranquillita' pubblica e l'ordine sociale. Ancora nel 1609 del resto il giurista Jacopo Menochio affermera': "Illud primum sciendum est, quod etsi furiosus insanus et stultus inter se differant non tamen quo ad rem nostram differunt"(5). Enunciato fondamentale e di partenza, fin dalle prime formulazioni del diritto romano, e' che il furioso non deve essere punito delle sue azioni e deve essere sottratto alla pena. Il furore esclude la volontarieta' degli atti commessi e quindi la colpa. Il folle non ha ne' "voluntas" ne' "propositum". Fin dal diritto romano e giustinianeo si parla di "mens" come luogo del difetto del folle, si parla di carenza di intelletto, di mancanza di "sensus", di "affectus", di "voluntas". Vi e' nel furioso assenza e deficienza di qualcosa, un vuoto di qualcosa, e occorre un lavoro grande del giudice perche' si giunga alla interiorita' del suo animo contro le insidie della apparenza e del buon senso. Il parere del medico e' una delle tante prove, dei tanti segni da considerare, ma al pari di ogni altro parere 'tecnico' e' rielaborato dal giudice. Non ha un valore piu' alto o probante.


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