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Dostoëvskij e la psichiatria positivista del suo secolo: le tre direzioni dello sguardo di Mitja Karamazov
di
di Paolo Francesco Peloso (Genova)

  • 1) Il problema della discontinuità tra crimine e personalità e il “rimando” alla follia.
  • 2.a) Lo sguardo a sinistra: sull'incoerenza tra crimine e personalità come dimostrazione di uno stato di follia.
  • 2.b) Lo sguardo a destra: sul continuum tra stato passionale e infermità di mente.
  • 2.c) Lo sguardo al centro: sulla discontinuità tra stato passionale e infermità di mente.
  • 3) Emozioni, passioni, imputabilità e infermità di mente.

  • 1) Il problema della discontinuità tra crimine e personalità e il “rimando” alla follia.

    La riflessione sulla follia transitoria e sul delirio parziale aveva interessato i medici molti secoli prima che Pinel scrivesse la sua opera sulla mania .
    Pompeo Sacco, un medico italiano del secolo XVII criticò, ad esempio, nel 1717 le idee di Van Helmont sull'esistenza dell'intervallo lucido nel quadro della mania .
    Solamente con le opere di Pinel, comunque, e l'introduzione qualche anno dopo del quadro della monomania da parte di autori come Esquirol , Georget , Marc e Orphila , il problema diviene un oggetto centrale di dibattito nel campo della psichiatria forense.
    Dostoëvskij conosceva le idee degli psichiatri francesi dei primi anni del suo secolo e in Delitto e Castigo troviamo un'allusione di Lebézjatnikov, uno degli amici di Raskolnikov, a un professore di Parigi, morto alcuni anni prima, e all'uso da parte sua di una terapia che può essere facilmente identificata col trattamento morale.
    Il problema del rapporto tra l'esistenza della follia transitoria - un quadro comparabile a una bouffée delirante acuta - e la libertà e la responsabilità dell'individuo, in particolare, è poi esposto con chiarezza da Alekséj al generale dopo l'incidente con la signora baronessa nel VI capitolo de Il giocatore, nel 1865.
    Lo stesso problema è ripreso in modo ancora più chiaro nel 1879 con l'esposizione delle tre perizie sulla salute mentale di Mitja Karamazov durante il processo per l'assassinio di suo padre Fëdor Pavlovic e la discussione sul valore che doveva essere assegnato alla direzione del suo sguardo quando era entrato nell'aula.
    Non ci soffermeremo, in questa trattazione, sulla vicenda generale de I fratelli Karamazov, né sulle caratteristiche del delitto di parricidio di cui Mitja è (ingiustamente) accusato e del conseguente processo .
    Oggetto della nostra attenzione saranno esclusivamente le caratteristiche presentate dalle tre perizie alle quali, una accanto all'altra con una buona consonanza con le leggi della polifonia , nel corso del processo il giovane Karamazov è sottoposto, perché esse possono essere considerate ottime rappresentazioni stilizzate di tre diversi atteggiamenti, tra i più diffusi tra medici, giuristi ed opinione pubblica, sulla possibile relazione tra un fatto reato, le caratteristiche psicopatologiche della persona alla quale esso è attribuito e la sua imputabilità.
    L'esposizione delle tre perizie in successione e, soprattutto, quella dei tre differenti significati attribuiti allo sguardo di Mitja al momento dell'ingresso in aula, sembra gettare un'ombra di scettica e impietosa ironia sulle possibilità della psichiatria forense di poter giungere ad una qualunque comprensione della persona dell'imputato e della sua relazione col reato e contribuire in tal modo alla giustizia.
    Il significato attribuito a questo sintomo, e forse ad ogni altro, Dostoëvskij sembra dire in questo caso, deriva da un pregiudizio già presente nei medici prima dell'osservazione, ed esso sarà rivisitato, dai tre medici, in relazione alla verità che ciascuno di essi si sforza di dimostrare: la discontinuità tra personalità generale e comportamento attuale e il suo rimando alla rottura psicotica per il primo, la diagnosi clinica di psicosi come sviluppo sulla base di un'alterazione dell'umore e di segni prodromici per il secondo, la sanità mentale di Mitja per il terzo.
    Dal tempo di Descartes che, in una lettera scritta nel 1646 per difendere un contadino accusato di omicidio, considerava lo stato passionale come una circostanza di riduzione della responsabilità , e ancor più da quello di Esquirol, Georget o Dostoëvskij, d'altronde, il problema della colpevolezza degli atti che traggono la loro origine da una passione così intensa da assomigliare alla follia, ha avuto differenti risposte, e il dibattito tra i tre medici, rappresentato da Dostoëvskij, è aperto a tutt'oggi.
    Utile, in proposito, considerare l'evoluzione del codice penale italiano in proposito.
    Il primo Codice Penale dell'Italia unita, che porterà il nome del ministro della giustizia Giuseppe Zanardelli, verrà promulgato, dopo trent'anni di gestazione, consultazioni tra giuristi e psichiatri - durante le quali intervenne anche il direttore del manicomio di Genova e primo docente di psichiatria nell'ateneo genovese, Luigi Verdona, in favore di una discriminazione riguardo all'imputabilità che tenesse conto della particolare costituzione psichica della donna - e discussione, con decreto 30 giugno 1889. Esso sarà noto come compromesso tra le esigenze poste dalla Scuola classica e quelle poste dalla Scuola positiva, che sarebbe comunque rimasta largamente insoddisfatta, nonché per l'abolizione della pena di morte, l'introduzione del manicomio criminale e per una generale tendenza verso la mitezza delle pene.
    Enrico Ferri ci lascia una ricca raccolta dei suoi interventi parlamentari in merito al progetto Zanardelli, che trovò un forte oppositore anche nel Lombroso . Tra i punti più discussi del progetto, troviamo molte questioni ancor oggi all'ordine del giorno: tra le altre, il manicomio criminale, la carcerazione preventiva, il vizio parziale, l'ubriachezza (considerata in quell'occasione circostanza di esclusione dell'imputabilità o diminuzione della pena).
    Riguardo agli argomenti di nostro interesse, l'art. 45 sanciva la necessità che l'imputato avesse voluto il fatto, mentre l'art. 46, nel definire la condizione di infermità di mente, riecheggiava concetti assai invisi agli psichiatri positivisti, come coscienza e libertà dei propri atti, ma offriva una definizione di mente corrispondente a tutte le facoltà psichiche dell'uomo, innate od acquisite, semplici e composte, dalla memoria alla coscienza, dall'intelligenza alla volontà, dal raziocinio, al senso morale , ad essi certo più gradita. Vi si stabiliva che:
    «Non è punibile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era in tale stato di infermità di mente, da togliergli la coscienza o la libertà dei propri atti».
    L'articolo 47, invece, prevedeva una condizione assimilabile al vizio parziale.
    Per Ferri, un'interpretazione estensiva dell'art. 47 come era stato formulato nel progetto parlamentare avrebbe esposto al rischio di mandar prosciolto proprio il delinquente istintivo, quello dal quale la società avrebbe dovuto maggiormente difendersi, perchè privo del senso morale. La nozione di semiinfermità di mente, per quei casi in cui coscienza e libertà erano compromesse, ma non tolte, era stata a lungo osteggiata negli anni precedenti del resto dagli psichiatri positivisti come Miraglia, Tamburini e Lombroso, fautori dell'inimputabilità in ogni caso di chi era veramente affetto da follia, in polemica col guardasigilli Mancini. Anche per Ferri, questa concezione era scientificamente inconcepibile, ma questa opposizione del Ferri apppare, in realtà, più che altro concettuale. Larga parte dei soggetti che avrebbero potuto beneficiare dell'art. 47, infatti, corrispondenti ai delinquenti passionali della sua classificazione, rotta ogni ambiguità epistemologica con la pazzia, come vedremo, godevano già di una diminuzione di pena grazie all'art. 51.
    Gli unici esclusi da un'eventuale soppressione della semiresponsabilità, sarebbero dunque stati i pazzi morali in senso stretto, da lui definiti delinquenti istintivi e considerati, in termini di difesa sociale, i più pericolosi in assoluto. La semiresponsabilità, invece, sembra interessare il giurista Berardi , convinto seguace della scuola positiva, per il quale, assai realisticamente, la dottrina della responsabilità o irresponsabilità assoluta, e cita in suo suffragio a questo proposito giuristi come Mancini e Pessina e psichiatri come Krafft Ebing, è molto comoda, ma è falsa e non consente di individuare un destino giudiziario per i casi da lui attribuiti alla zona media. Il Berardi ricorda in particolare due casi in cui la semiresponsabilità può ritornare utile: quando l'infermità esiste, ma è insufficiente la sua relazione col delitto; e quando l'infermità è insufficiente ad escludere totalmente la responsabilità, come appunto avviene nei casi che propone di classificare all'interno della categoria della zona media.
    Quanto ai delitti commessi nell'impeto dell'ira, in seguito a provocazione o per intenso dolore, all'art. 51 del codice Zanardelli essi erano puniti con una pena diminuita dalla metà ad un terzo. Come abbiamo visto, per Ferri è importante il carattere sociale od antisociale della passione, e per questo avrebbe voluto che passioni come il dolore garantissero una diminuzione maggiore rispetto all'ira, che rappresenta invece una passione antisociale.
    Nel 1919, Enrico Ferri ottenne l'incarico di dirigere una commissione incaricata della riforma del codice Zanardelli e dell'elaborazione di un nuovo Codice Penale. La pena ha, per il Ferri, il solo significato di una difesa della società dal crimine, ed allora il problema dell'imputabilità viene saltato a piè pari, e con esso quello del vizio di mente. La pena è in realtà una misura di sicurezza del tutto priva di retributività e di relazione con la colpa e col castigo, e riguarda pertanto in ugual misura il sano ed il folle .
    Più attento alle esigenze della scuola positiva rispetto a Zanardelli, ma non ad esse del tutto assogettato come il Ferri, sarà invece il codice promulgato con decreto 19 ottobre 1930 a firma del guardasigilli Alfredo Rocco, fondato, com'è noto, sulla teoria del doppio binario, e a tutt'oggi vigente.
    Esso regola il vizio totale di mente all'art. 88, che stabilisce che:
    «Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere l'incapacità di intendere o di volere».
    Regola il vizio parziale di mente, invece, all'art. 89, per il quale:
    «Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tal stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d'intendere o di volere, risponde del reato commesso, ma la pena è diminuita».
    I giuristi sono in genere concordi nel ritenere che la differenza tra vizio totale e vizio parziale riguardi il piano quantitativo e non quello qualitativo, cioè il livello di compromissione della capacità, e non l'estensione delle funzioni interessate .
    Quanto agli stati emotivi o passionali, sono affrontati all'art. 90, che recita esplicitamente, ribaltando la posizione del codice Zanardelli:
    «Gli stati emotivi o passionali non escludono nè diminuiscono l'imputabilità».
    L'unica eccezione, è rappresentata dal fatto che l'aver agito in stato d'ira determinato da fatto ingiusto altrui è previsto come attenuante all'art. 62.

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