| Dostoëvskij e la psichiatria positivista del suo secolo: le tre direzioni dello sguardo di Mitja Karamazov di di Paolo Francesco Peloso (Genova)
2.b) Lo sguardo a destra: sul continuum tra stato passionale e infermità di mente. Segue, a questa prima perizia, l'esposizione della seconda, frutto del lavoro di un medico assai noto e proveniente dalla capitale che perverrà alla stessa conclusione del primo collega, attraverso però un procedimento rigorosamente psicopatologico anziché induttivo. Per il perito moscovita, il fondamento della diagnosi d'infermità mentale va ricercato nella presenza di una ossessione, una mania, un impulso morboso che si era già impossessato di Mitja in modo irresistibile nei giorni precedenti il delitto, ed aveva pertanto escluso, se non la sua capacità di intendere, certamente quella di volere («lo aveva fatto sia pur coscientemente, ma quasi involontariamente»). La mania di Mitja, considerata un possibile prodromo di completa follia, in particolare, persisteva al momento della visita, quando l'imputato aveva manifestato sguardo fisso, risate improvvise, irritabilità continua e incomprensibile, eloquio scucito, agitazione incontenibile allorché il discorso andava a parare sui tremila rubli di cui si sentiva creditore verso il padre. Quest'agitazione, quest'intenso stato passionale, era, in base all'inchiesta, già presente in lui, prima dei fatti, ogni volta che veniva affrontato quello spinoso argomento, e non sembrava in relazione con caratteristiche di avidità. Quanto allo sguardo, esso era sì un elemento a favore della diagnosi di anomalia psichica, ma perché ci si sarebbe aspettati che Mitja, entrando, guardasse verso destra, dove sedeva l'avvocato dal quale avrebbe dovuto aspettarsi un aiuto. L'atteggiamento di questo secondo perito, come poi quello del terzo, non confonde tra loro un gesto e una persona, non va a rievocare, come aveva fatto Herzenstube durante la sua testimonianza, le condizioni psicologiche e sociali della crescita infantile, le qualità relazionali e umane di quest'uomo, per trovarvi ad un tempo le stigmate della follia sopravvenuta e le condizioni della pietà e della comprensione; nel suo caso, come hanno proposto recentemente ancora Cherki-Niklès e Dubec : «Accettare di partecipare a un processo significa, per il perito, accontentarsi di verità relative, saper rimanere nel campo sociale, altrimenti egli stesso invaliderà i risultati della sua perizia. E` un punto sul quale l'accordo è pressoché unanime: lo psicoanalista non è il perito e viceversa, perchè la perizia assumerebbe in tal caso una dimensione megalomane e assurda. Essa avrebbe la pretesa di poter dare un significato a ogni cosa, di scoprire ogni volta i meccanismi inconsci, soppianterebbe il soggetto stesso, che deve mantenere i suoi lati oscuri per conservare il proprio posto, per custodire la propria verità per sempre misteriosa, quella che lo rende condannabile, come prezzo della sua libertà. Lasciare al soggetto il suo inconscio è uno dei limiti della perizia». Il problema che il giudice pone allo psichiatra in merito al quesito di imputabilità è quello di una diagnosi, e non della comprensione sociale, psicologica e umana di un gesto. Come osserva Bruno Callieri , infatti: «è certo che la diagnosi psichiatrica (qualunque sia la sua giustificazione epistemologica e il suo significato euristico) riguarda un'area di disturbi molto più ristretta rispetto a quella occupata dai c.d. comportamenti antisociali [....]. Pochi sono gli offenders mentalmente disturbati, sebbene spesso si possano reperire conflitti mentali patogeni o tratti peculiari di personalità in molti offenders». Il perito moscovita, dunque, non valuta che l'output, rappresentato dai sintomi e dai comportamenti che l'imputato presenta. Facendo nostra la distinzione che Speziale-Bagliacca ha recentemente proposto tra una logica della colpa, che si limita alla definizione delle responsabilità oggettive, e una logica della comprensione, che si sforza di cogliere i fatti nel loro storico e scientifico determinarsi, coglie il problema della componente di autentica partecipazione soggettiva e dei condizionamenti, si mantiene, al contrario di Herzenstube, all'interno della prima. Sintomi e comportamenti che Mitja presenta vanno, in questo caso indubbiamente, a ricadere in quella zona di nessuno che sta tra normalità e psicosi, tra imputabilità in senso pieno ed inimputabilità, tra passione intensa e alterazione psicotica dell'affettività. Esaminiamoli nel dettaglio: lo sguardo fisso può esser quello di un uomo concentrato su un'idea, ma non necessariamente su un delirio; le risate improvvise, l'irritabilità continua e incomprensibile, l'eloquio scucito, possono esser quelli di un uomo intensamente emozionato, o quelle di un soggetto maniacale; quanto al motivo dei tremila rubli, esso rappresenta, per la psicopatologia dei contenuti del pensiero, un'idea prevalente, e non è, di per sé, quindi, certo sufficiente per la diagnosi di una psicosi. Ma il perito della capitale, ha, invece, presente un quadro ideologico di riferimento ben preciso: quello dell'omicida pazzo del quale ci dà una rappresentazione, singolarmente corrispondente al nostro caso, Enrico Ferri . Caratteristico dell'omicidio nei pazzi - una situazione per molti versi assimilabile alla monomania omicida di Esquirol, da Ferri rivisitata in riferimento al paradigma ideologico forte rappresentato dalla teoria degenerazionista di Magnan - sarebbe una spinta all'omicidio che può avere la forma dell'ossessione omicida (è più calzante con il nostro caso), e quindi aver sviluppo lento ed essere, in un primo tempo, resistibile, o quella dell'impulso, o raptus, omicida. Nell'ambito di questa trattazione, Ferri riporta un caso descritto da Blanche, nel quale l'impulsività omicidia sembra rimandare, come nel caso di Mitja, a quella che oggi sembra la presenza di una personalità predisponente: «aveva il sangue alla testa, forse tre quattro volte al mese».
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