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SENATO DELLA REPUBBLICA XIV LEGISLATURA
DISEGNO DI LEGGE N. 683 d'iniziativa del senatore Furio GUBETTI

COMUNICATO ALLA PRESIDENZA IL 26 SETTEMBRE 2001

Norme per la tutela del diritto costituzionale alla salute, alle cure e all'assistenza dei malati di mente

RELAZIONE DI PRESENTAZIONE

Onorevoli Senatori, il 4 ottobre 1994 presentai alla Camera dei Deputati la mia prima proposta di legge, la n. 1380, denominata "Norme per la riorganizzazione dell'assistenza psichiatrica e per la tutela dei malati di mente" che ottenne l'adesione di 133 deputati fra i quali ricorderò, per brevità, soltanto Calderoli, Ghigo, Storace, Vietti, Prestigiacomo, Pisanu, Martinat, Aprea, Ferrara, Sgarbi, Romani, Valducci. La divisione della maggioranza governativa, che avvenne poche settimane dopo, impedì di fatto la normale prosecuzione dell'iter legislativo di quella proposta. Sono passati sette anni. Di quella proposta, le parti riguardanti le modalità organizzative dell'assistenza psichiatrica sono state superate dal passaggio progressivo – in parte già avvenuto e che dovrà completarsi nel prossimo futuro – di queste competenze alle Regioni. Molte amministrazioni regionali hanno adottato da anni una rete di strutture sostanzialmente simili a quella prevista dalla mia proposta del 1994. In una legge nazionale è ora opportuno che rimanga soltanto, per la parte organizzativa, una norma cornice che delinea i presìdi e le strutture minime indispensabili per garantire un livello di assistenza adeguato ed uniforme su tutto il territorio dello Stato. Per quanto riguarda invece l'esigenza che anche in Italia, come in altri Paesi d'Europa, esista una normativa chiara ed univoca che sappia contemperare il diritto alla libertà con il diritto alla salute e alle cure del malato di mente grave, questi sette anni sembrano essere passati invano. Né poteva essere altrimenti perché le Regioni non hanno la potestà di legiferare in questo campo e il Parlamento , per affrontare questo problema, deve essere in grado di dare un giudizio obbiettivo sulla legge 180, valutandola in tutte le sue luci e le sue ombre. Dopo oltre 20 anni di bombardamento mediatico, praticamente a senso unico, le luci tutti le conosciamo perfettamente. Le ombre – e le conseguenti necessità di modifica della legge 180 – le hanno invece imparate a conoscere, direttamente sulla propria pelle, quasi esclusivamente i malati di mente passati, senza via di mezzo, dalla reclusione all'abbandono – e le loro famiglie, lasciate sole con i propri insostenibili problemi. Le loro disperate richieste di aiuto ed esasperate proteste sono state, dalla sinistra al governo, dapprima ignorate, poi criminalizzate come colpevole nostalgia dei manicomi, infine strumentalizzate a sostegno della tesi, in gran parte pretestuosa, che i problemi non nascevano dalla errata impostazione ideologica della 180, ma dalla sua mancata attuazione. La sinistra, anche in questo caso, sembra incapace di autocritica, di fare i conti con la sua storia, di prendere le distanze dalla propria perniciosa ideologia, di imparare dai fatti e dagli errori. Perciò Parlamenti dominati da maggioranza di sinistra non hanno potuto prendere atto dei limiti e delle contraddizioni della legge 180, evidenziati dall'esperienza, e adottare le necessarie modifiche. Questo compito invece può e deve essere svolto da questa maggioranza di questo nuovo Parlamento, al cui giudizio sottopongo la mia proposta del 1994, con pochi cambiamenti, ma alleggerita di tutte quelle norme che ormai sono di competenza regionale. Completo questa mia relazione di presentazione dell'attuale disegno di legge con un'ampia citazione della relazione del 1994. Scrivevo allora: "La proposta di legge in esame vuole innovare e profondamente modificare la normativa sull'assistenza psichiatrica prevista dalla ben nota legge n. 180 del 1978 e successivamente confermata nella legge n. 833 dello stesso anno. Una legge, la "180", simbolo di un'epoca, di una cultura, del regime consociativo catto-comunista; sentita, perciò, dalle forze che l'hanno consapevolmente voluta, come una bandiera; dichiarata più intoccabile della Costituzione; difesa con le unghie e con i denti da ogni pur pacata e motivata critica, nonostante le sue evidenti lacune ed incongruenze e la conseguente incapacità di affrontare i problemi dei pazienti psichiatrici più gravi. Per anni agli appelli, alle proteste, alle denunce dei familiari, sulle cui fragili spalle era stato scaricato il peso, spesso insostenibile, della assistenza di questi pazienti, fu opposto un muro di silenzio. Ad ogni fatto o persona che potessero testimoniare contro la "perfezione" della "180" fu applicata una censura degna dei Paesi totalitari da parte di giornalisti, intellettuali e persino magistrati, uniti dal collante dell'ideologia. Chi, come il parlamentare ed intellettuale comunista Antonello Trombadori, illuminato sulla "180" da una drammatica esperienza familiare, rifiutava la complicità di una omertà ideologica, veniva rimproverato di dire: "Cose giuste, ma politicamente non opportune". Come nel "caso Lisenko" e della genetica sovietica la "verità ideologica" doveva prevalere sulla realtà dei fatti. Così il "regno della menzogna" descritto da Solzenicyn aveva esteso i propri confini fino al nostro Paese, soltanto pochi anni fa; sarebbe opportuno non dimenticarlo troppo presto. A questi rimproveri Trombadori replicava giustamente: "Il momento per dire la verità è sempre opportuno" ed aggiungeva testualmente, nel maggio 1984: "Komeinisti quali altri non sono i sostenitori dell'intoccabilità della "180": dei dogmatici che rifiutano il principio della verifica e della sperimentazione pur di salvare l'intangibilità di un disegno ideologico. Quello dei fautori della "180" è uno sbarramento terroristico a una ponderata analisi della situazione, è una mostruosa indifferenza ai casi concreti, alla vita come si manifesta, terribile e disperata. Io dubito che Franco Basaglia, se fosse ancora vivo, approverebbe il loro operato. Forse direbbe, come già aveva fatto Marx, Je ne suis pas basaglien". Ma i basagliani rispondevano che Trombadori non era obiettivo, che, come familiare di un paziente psichiatrico, era troppo emotivamente coinvolto per giudicare in modo equilibrato. Perché, quando la congiura del silenzio non riusciva più a soffocare le accuse disperate ed esasperate dei familiari, i basagliani, in quella che era ormai diventata una lotta senza esclusione di colpi in difesa della propria ideologia e delle posizioni di potere conquistate, brandivano come arma impropria alcuni concetti psicoanalitici, usati in modo selvaggio, per colpevolizzare le famiglie di essere la causa dei sintomi del malato. Il che, se in alcuni casi, ma non certo in tutti, poteva essere vero, evidenziava una ulteriore contraddizione della "180", giustamente, anche se inutilmente, rilevata dalpadre della psicoanalisi italiana, Cesare Musatti, che, nel suo grande buon senso, affermava: "Non si può rimettere il malato mentale in quell'ambiente che ha creato il disturbo mentale. Fu fatta la rivoluzione senza che ci fossero gli strumenti per poterla fare". Ma non soltanto fra gli psicoanalisti vi erano dei dubbi, anche fra gli psichiatri non tutti erano a favore o in silenziosa e passiva accettazione della "180". Uno psichiatra di grande esperienza ed umanità, Mario Tobino, scrittore sensibile, ex partigiano, progressista in politica, pubblicava nel 1982 un libro, Gli ultimi giorni di Magliano, libro ovviamente boicottato in modo totale dalla mafia culturale allora imperante, in cui si legge: "Giunge voce, si viene a sapere che diversi malati, dimessi dai manicomi, spinti fuori nel mondo, nella società, per guarire, come proclamavano i novatori, per inserirsi, sono già in galera, in prigione, arestati per atti che hanno commesso. Nessuno più li proteggerà, li consiglierà, li impedirà. Nessuno più li manterrà con amorevolezza e fermezza, li condurrà per mano lungo la loro possibile strada. Ed ora precipitano, si apre per loro il manicomio criminale. La follia non c'è, non esiste, deriva dalla società! Evviva!" E in una successiva intervista Tobino aggiungeva: "Il risultato (della "180"): abbandono dei deboli, degli indifesi, fallimento generale. E' un esempio di disumanità, di profondo cinismo; prima di tutto obbedire alla politica e poi ai deboli succeda quel che succeda. Esempio di chi non conosce la pietà". Invettiva che riterremo esagerata se non ci bruciasse ancora il ricordo di una assemblea di allora, dove un giovane collega psichiatra, infastidito da un lungo elenco di dimessi morti suicidi, per incidenti, per malattie trascurate, esclamò con rivoluzionaria imbecillità: "Il progresso vuole le sue vittime". Al libro di Tobino i sostenitori della "180" opposero il solito silenzio opportunista in pubblico, ed un giudizio sprezzante in privato, che attribuiva la protesta dello psichiatra-scrittore ad una visione romantica e superata del rapporto medico-paziente e ad una nostalgia decadente e un po’ senile per il mondo del vecchio manicomio, cosi appassionatamente descritto nei suoi romanzi. Ma il professor Giovanni Jervis, autore del noto Manuale critico di Psichiatria, non era certamente un nostalgico del manicomio. Collaboratore di Basaglia, politicamente impegnato a sinistra, inizialmente favorevole alla "180", ma dotato di onestà scientifica e capace quindi di ricredersi davanti ai fatti, in un convegno del 1985 affermava: "La legge "180" non è una buona legge, anche se basata su molte buone intenzioni: è una legge ingenua, velleitaria, culturalmente rozza. La sua formulazione riflette fedelmente le idee di coloro che la vollero in quel modo, e che talora non nascondevano il loro proposito di far esplodere nella società le contraddizioni che il manicomio aveva nascosto all'interno delle proprie mura". Jervis alludeva al folle progetto di chi voleva usare malati di mente, carcerati ed emarginati come detonatori della rivoluzione. Oggi potrebbe sembrare incredibile, e lo sarebbe se non ci fossero i documenti dell'epoca, ma c'era un consistente gruppo, all'interno della'associazione denominata Psichiatria democratica, che contestava la "180" da sinistra, se la prendeva con gli ambulatori psichiatrici, ma soprattutto con i piccoli servizi ospedalieri, visti come una inammissibile medicalizzazione di un problema che era soltanto politico e sociale. Non senza una qualche ragione, dal suo punto di vista, questo gruppo accusava Basaglia di aver accettato un compromesso con la lobby medica e tollerava la "180" soltanto come legge-ponte che doveva evolvere al più presto in senso "politicamente corretto". Nel primo piano sanitario regionale del Piemonte dopo la "180" si prevedeva, per esempio, che i letti dei servizi psichiatrici ospedalieri dovessero progressivamente diminuire fino a sparire del tutto. E' quasi superfluo dire che, per fortuna, sono invece aumentati…. …Nella seconda metà degli anni Ottanta, sotto la crescente pressione di una opinione pubblica sempre più ostile ai risultati negativi della "180", talmente evidenti da non poter più essere nascosti con la censura e con un vero terrorismo ideologico che bollava ogni critica come perversa volontà di riaprire manicomi-lager, i basagliani moderati iniziarono ad ammettere che qualcosa nell'attuazione della legge n. 180 non funzionava, che era necessario intervenire. La senatrice Ongaro Basaglia, della sinistra indipendente, nel presentare nel 1987 un disegno di legge integrativo dell'attuale legislazione psichiatrica, affermava testualmente: "Siamo tutti consapevoli del fatto che, a più di nove anni dall'emanazione della legge n. 180, si è arrivati ad un punto limite oltre il quale non è consentito lasciare senza risposta le esigenze ed i bisogni di malati e familiari…". La nuova linea di difesa era: la 2180" è senza difetti, non ha funzionato perché non è stata applicata o è stata sabotata. A questa tesi Jervis, nel già citato intervento, dopo aver riconosciuto la relativa validità di alcune esperienze in Emilia e nel Veneto, replicava:" Nella maggioranza delle altre regioni, però, è probabile che la legge abbia creato una situazione tale, per cui è peggiorato l'insieme delle garanzie offerte al paziente psichiatrico, soprattutto se affetto da disturbi gravi. Non è vero che ciò sia dovuto ad inadempienze successive alla legge: è più onesto dire che i consiglieri e gli estensori della legge non previdero la situazione che avrebbe inevitabilmente creato". L'ipotesi del sabotaggio poteva poi condurre a conclusioni paradossali: poiché per moltissimi anni gli unici, ascoltati consiglieri sia del Governo centrale, che di molte amministrazioni regionali, furono i basagliani… In effetti, in alcune situazioni locali, i basagliani più estremisti osteggiarono e ritardarono la realizzazione di comunità residenziali psichiatriche perché, nella loro fobia istituzionale, temevano che queste strutture potessero diventare dei nuovi "piccoli manicomi". In realtà, se si supera l'atteggiamento di fideismo acritico dei sostenitori o di rifiuto viscerale degli oppositori della "180", se si tolgono i paraocchi dell'ideologia e del pregiudizio, si vedrà che il fallimento della riforma psichiatrica è dovuto all'effetto combinato sia di mancate od errate applicazioni locali della legge, sia di interventi finanziari insufficienti e non coordinati, sia di carenze intrinseche della legge stessa… Si può riconoscere le carenze della 180 senza per altro negare i suoi importanti pregi: l'aver affidato il trattamento delle fasi acute delle malattie mentali all'ospedale generale, su un piano di parità con le altre patologie mediche; l'aver previsto una rete di ambulatori psichiatrici, estesa a tutto il territorio nazionale; l'aver voluto, con un tentativo originale unico al mondo, il superamento e la chiusura degli ospedali psichiatrici. A questo proposito è interessante osservare l'evoluzione dell'atteggiamento degli esperti stranieri nei confronti della legge n. 180. Ad un iniziale grandissimo interesse per l'esperienza italiana, testimoniata dalle visite di numerose delegazioni, è subentrato progressivamente, col passare degli anni, un giudizio critico sui risultati effettivamente conseguiti, per giungere infine all'attuale, scettica indifferenza. Dal 1978 ad oggi hanno aggiornato e modificato la propria legge sull'assistenza psichiatrica la Svezia nel 1982, la Danimarca nel 1989, il Belgio e la Francia nel 1990. Nessuno di questi Paesi europei ha deciso di seguire l'esempio italiano. Per l'esattezza nessun Paese del mondo ha ritenuto di farlo. Ovunque continuano ad esistere gli ospedali psichiatrici, anche se aggiornati e ridimensionati. Tutto il mondo ha torto e soltanto noi siamo nel giusto? E' un pensiero pericolosamente simile a quello paranoico. E che nella nascita della legge n. 180 ci sia qualcosa di folle sembra anche il parere dell'ex Presidente del Consiglio Giuliano Amato, nonostante che il suo partito (il PSI) fosse stato, nel 1978, uno dei più convinti nel voto a favore di quella legge. Difendendo in un convegno il diritto di Basaglia e dei suoi seguaci di proporre le proprie teorie e respingendo la comoda scappatoia di scaricare soltanto su di loro tutte le responsabilità dei molti danni causati dalla "180", Amato affermava testualmente: "Guai quindi a chi sostiene che l'errore fu di Basaglia; l'errore fu di un legislatore che, in una materia tanto problematica e controversa, ha codificato, rendendola rigida, l'impostazione di una scuola". Chi oggi pensasse che la soluzione consiste nel riconoscere l'errore di allora e nel riaprire gli ospedali psichiatrici, farebbe però, a nostro parere, un errore altrettanto grave. Tornare indietro sarebbe praticamente impossibile e vanificherebbe tutti gli sforzi, le sofferenze ed i sacrifici di questi anni. Bisogna quindi andare avanti, correggendo gli errori della "180", e rendendo compatibili le buone intenzioni che riconosciamo a molti che vollero quella legge, con la dura realtà della malattia mentale. Il più noto errore della "180", ormai quasi universalmente riconosciuto, è quello di aver negato implicitamente l'esistenza della cronicità psichiatrica e, di conseguenza, la necessità di prevedere strutture anche per trattamenti di lunga durata. Dopo aver di malavoglia ammesso la possibilità di fasi acute della malattia, che possono avere necessità di ospedalizzazione, sia pure per il tempo assurdamente breve di sette giorni, gli estensori della legge n. 180 nulla infatti prevedono per esigenze di ricovero prolungato, coerentemente con le loro teorie che vedono nella cronicità psichiatrica nient'altro che un artefatto iatrogeno, un prodotto della lunga istituzionalizzazione in manicomio. Teorie purtroppo sbagliate perché, dal 1978 ad oggi, pazienti che non sono mai stati ricoverati in manicomio od in altre istituzioni, sono comunque cronicizzati nella loro malattia, a casa propria o vagabondando per l'Italia. L'ospedale psichiatrico non era la causa, ma un tentativo di risposta alla cronicità psichiatrica. Un tentativo inadeguato e superato e talora anche dannoso, perché dava una risposta unica ed indifferenziata ai bisogni molteplici e diversissimi delle varie malattie mentali nelle successive fasi della loro evoluzione. La legge n. 180 del 1978 faceva un passo avanti prevedendo il servizio psichiatrico nell'ospedale generale e l'ambulatorio psichiatrico sul territorio, ma anche due diverse risposte sono ancora troppo poche. Perciò quasi tutte le proposte di modifica della legge n. 180 presentate nella precedente legislatura prevedono altre strutture, dal day hospital ai presìdi residenziali per le esigenze di media o lunga degenza, più o meno esplicitamente e coraggiosamente definite tali, per l'allora perdurante timore di ostracismo nei confronti di chi osasse parlare apertamente di cronicità… …L'altro e sicuramente più grave difetto della legge n. 180, incredibilmente ignorato invece da tutte le proposte di modifica fino ad oggi presentate, è il modo superficiale e contraddittorio con cui viene affrontato il delicato e serissimo problema dei trattamenti sanitari obbligatori nei malati di mente. Chi ha colto la fondamentale importanza di questo difetto della "180" è stata la regione Emilia Romagna, che ha cercato di porvi rimedio deliberando, l'11 aprile 1990, una direttiva regionale in ordine alle procedure di accertamento e trattamento sanitario obbligatorio per le malattie mentali, delibera elaborata da un gruppo di studio composto da sanitari delle unità sanitarie locali emiliane e da esperti giuridici dell'Università di Bologna. Questa direttiva, in realtà, non è che una disposizione interpretativa, di fatto non vincolante e risolutiva del problema, per i noti limiti delle competenze regionali, che non permettono di modificare una legge nazionale. Anche se di fronte agli insanabili difetti della "180" la tentazione di modificarla la regione Emilia Romagna sembra averla avuta, almeno a giudicare dal suo vano tentativo di creare, sotto le mentite spoglie di una interpretazione della legge, figure giuridiche nuove, quale l'accertamento sanitario obbligatorio ed il trattamento sanitario obbligatorio extraospedaliero. Novità che presentano aspetti di grande interesse ed utilità, tanto che abbiamo deciso di utilizzarle, in parte, nella presente proposta di legge. La delibera della regione Emilia Romagna è un documento di straordinario interesse anche perché dimostra come persone preparate, esperte ed in buona fede possono essere condizionate dalla ideologia, che impedisce loro di sviluppare fino alle estreme, logiche conseguenze la propria analisi del problema. Così, con impossibili contorsioni interpretative, cercano di apportare alla "180" le modifiche di fatto che capiscono necessarie, ma non osano dire e forse neppure pensare che è la legge nazionale, e non la sua interpretazione, che va cambiata. Così da un lato rivendicano, molto giustamente, la "dignità di branca medica" alla psichiatria; dall'altro continuano ad insistere utopisticamente che l'ordinanza di trattamento sanitario obbligatorio "non è una conseguenza burocratica delle certificazioni mediche, ma un atto responsabile sul quale il sindaco è chiamato a pronunciarsi", senza però spiegare quali strumenti e quale preparazione abbia per farlo il primo cittadino di un piccolo o grande paese. E ancora, di fronte al problema della pericolosità del malato, problema che è reale in pochi, ma non trascurabili casi, e che è completamente rimosso nella legge n. 180, prima affermano che non si può "correre il rischio della deresponsabilizzazione attraverso la negazione del problema", poi consigliano "di valutare l'opportunità di segnalare la sussistenza dei rischi specifici di particolare pericolosità connessi al preciso contesto sociale in cui si trova il sofferente psichico, agli organi preposti istituzionalmente alla prevenzione ed alla repressione di fatti-reati (cioè Forze dell'ordine e magistratura)". Questo suo presupposto, da loro affermato, che "il reato commesso da persona sofferente di disturbi psichici non è diverso, per quanto riguarda l'aspetto preventivo e repressivo, dal reato commesso da qualsiasi altro cittadino". Si sostiene cioè che quanto può scoraggiare e prevenire un reato in una persona sana è altrettanto efficace con un grave paziente psichiatrico. Affermazione che equivale a dire che la malattia non influisce sulla sua capacità di intendere e di volere rispetto alla sua determinazione a commettere un reato. Ora sappiamo tutti che questo non è vero e che comunque è in totale contraddizione con quanto prevede il nostro codice penale. Demagogicamente con la legge n. 180 si fa finta di credere che il malato di mente grave è altrettanto libero e responsabile quanto una persona sana, per riscoprire improvvisamente che non lo è soltanto dopo che ha commesso un reato, quando gli si applicano le norme del nostro codice penale. Il tutto in barba a quella prevenzione tanto osannata nella "180". In pratica chi ha provato, anche in Emilia, a segnalare la potenziale pericolosità di un paziente a giudici e polizia si è sentito rispondere – non poteva essere altrimenti – che loro avevano sì strumenti per reprimere, ma non per prevenire i reati di un folle e che se la pericolosità nasceva dall'interazione fra patologia ed un determinato contesto sociale, toccava ai sanitari curare la patologia o tenere lontano il soggetto da quel contesto e che questa era l'unica prevenzione concretamente possibile. La più grande contraddizione, pericolosa per la vita stessa del paziente, la troviamo però in un altro punto della delibera, ove si afferma: "Il cittadino è titolare di un diritto inalienabile alla libera autodeterminazione anche nei confronti della aggressione medica ai fini diagnostici e terapeutici: egli ha cioè il diritto di rimanere ammalato". E' vero che questo viene affermato con riferimento "a trattamenti sanitari per patologie non psichiatriche", ma che cosa accade se una patologia non psichiatrica colpisce un ammalato di mente, non in grado di valutare la necessità di certi interventi terapeutici? Per l'ambiguità della "180" avviene che può essere obbligato a curarsi per la patologia psichiatrica, ma che non può essere costretto ad interventi terapeutici, magari più urgenti e vitali, per le patologie non psichiatriche che lo affliggono. Questo pericoloso paradosso non è soltanto la versione della legge n. 180 che viene data da quella delibera ma è anche l'interpretazione prevalente fra i giudici. Per maggior chiarezza citeremo un episodio realmente accaduto: un paziente psichiatrico in trattamento sanitario obbligatorio fu colpito da appendicite acuta per la quale si rendeva necessario un intervento chirurgico di urgenza. Ma il paziente lo rifiutava ed il giudice tutelare, prontamente consultato, disse che perdurando il rifiuto non c'era nulla da fare, che soltanto se il paziente avesse perso conoscenza e fosse stato in imminente pericolo di vita il chirurgo lo avrebbe potuto operare senza il suo consenso, in stato di necessità. Per fortuna il paziente, dimostrando maggior buon senso della legge, finì per lasciarsi convincere a firmare l'autorizzazione all'intervento, firma che peraltro, essendo lui in trattamento sanitario obbligatorio, poteva anche essere considerata non valida. Perché qui sta l'assurda contraddittorietà della legge n. 180: si ammette che il malato di mente possa non essere in grado di giudicare sulle necessità delle terapie psichiatriche e si prevede per questo il trattamento sanitario obbligatorio, però su tutto il resto si sostiene incoerentemente che sia in grado di decidere liberamente e di tutelare adeguatamente i propri vitali interessi. Nell'episodio citato il problema concreto, che non trova una soluzione nella "180", si può riassumere in una domanda: la patologia del paziente è di tale gravità da compromettere la sua capacità di agire, di autodeterminarsi liberamente? Se la risposta è affermativa il suo rifiuto di accettare le terapie necessarie, psichiatriche o non psichiatriche, non è l'esercizio del suo "diritto inalienabile alla libera autodeterminazione", ma un frutto velenoso della malattia, che della sua libertà lo ha già alienato, privandolo della capacità di autotutelarsi nella difesa della propria salute. Per non lasciarlo vittima della sua malattia e dei conseguenti rischi, è necessario che qualcuno si assuma il compito della tutela del suo diritto costituzionale alla salute. Questo non può essere lo psichiatra od un altro appartenente alla équipe curante. Tutta la psichiatria dinamica, cominciando dalla psicoanalisi, ha chiarito i gravi rischi che incontra il terapeuta che vuole essere, o è di fatto come accade con la "180", anche tutore. La figura del terapeuta e quella del tutore devono essere nettamente distinte, in modo che si ristabilisca, anche nel campo delle patologie psichiatriche gravi, quel libero rapporto dialettico fra pari che deve esserci fra medico e paziente, quest'ultimo rappresentato, in questo caso, dal proprio tutore. Una modifica della legge n. 180 che non affronti questo problema chiave o che lo faccia in modo parziale, con insufficiente chiarezza e coerenza nell'individuare diritti e doveri di ognuno, lascerebbe parenti, terapeuti e collettività nell'attuale stato di impotenza ad aiutare efficacemente ed in modo duraturo quei pazienti più gravi, che negano la malattia e rifiutano di proseguire le terapie necessarie per evitare le ricadute. Per affrontarlo nel modo migliore, nella stesura della presente proposta di legge ci si è confrontati con la più recente legislazione dei Paesi europei in materia di salute mentale. Legislazione che, non casualmente, è concorde nel porre i trattamenti obbligatori come problema centrale. abbiamo scelto, come principale punto di riferimento, soprattutto le leggi di Gran Bretagna, Svezia e Danimarca, Paesi che per quanto riguarda la loro lunga tradizione democratica ed il rispetto per le libertà ed i diritti individuali non dovrebbero dar adito a dubbi da parte di nessuno…"
Questo scrivevo nel 1994, questo, senza sostanziali modifiche, credo si possa sottoscrivere oggi. Concludo con una breve descrizione degli articoli del presente disegno di legge: all'articolo 1 sono dettati i principi generali. Nell'articolo 2 si prevede la rete, dei presidi e delle strutture psichiatriche, minima indispensabile per garantire in modo adeguato ed uniforme l'assistenza su tutto il territorio nazionale. Nell'articolo 3 , che modifica l'articolo 34 e abroga l'articolo 35 della legge n. 833 del 1978, sono dettate le nuove norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari obbligatori. Nel comma 1 del punto 1, adeguandosi all'orientamento prevalente nella più recente legislazione psichiatrica europea che, quando è in gioco la libertà personale, ritiene necessario un controllo sostanziale e non solo formale della magistratura, si prevede la creazione di una commissione per la tutela della salute mentale presieduta da un giudice tutelare. Nei commi 2 e 3 sono stabilite le modalità per l'accertamento sanitario obbligatorio (ASO), anche con procedimento di urgenza (ASOU), che è quello più frequentemente usato nella pratica, secondo l'esperienza dei Paesi ove è già in uso. Inoltre, viene creata la figura del "tutore", cardine del nuovo sistema di garanzie dei diritti del paziente in trattamento obbligatorio. Nel comma 5 sono stabilite le modalità per la dimissione in affidamento e creata la figura dell' "affidatario", realizzando una valida alternativa alla necessità di ricoveri ospedalieri in trattamento sanitario obbligatorio eccessivamente prolungati, grazie alla possibilità di trattamenti sanitari obbligatori extraospedalieri. Nel comma 6 sono previste le modalità di cessazione dei trattamenti obbligatori e nel comma 7 le procedure relative ad opposizioni e ricorsi su atti concernenti i citati trattamenti. Nel punto 2 viene abrogato l'articolo 35.

TESTO DEL PROGETTO DI LEGGE



Rubrica realizzata in collaborazione con

Associazione Laura Saiani Consolati - BRESCIA
http://www.psichiatriabrescia.it

COLLABORAZIONI

Poche sezioni della rivista più del NOTIZIARIO possono trarre vantaggio dalla collaborazione attiva dei lettori di POL.it. Vi invitiamo caldamente a farci pervenire notizie ed informazioni che riteneste utile diffondere o far conoscere agli altri lettori. Carlo Gozio che cura questa rubrica sarà lieto di inserire le notizie che gli farete pervenire via email.

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