Roberto BENEDUCE Centro Fanon di Torino
Grazie per l'invito a partecipare a questo incontro. Devo innanzi tutto dire da quale punto di vista parlo, e di quale esperienza voglio parlare. Il Centro Fanon è un centro pubblico che a Torino si occupa di immigrati. E' un centro di una ASL ed il suo nome, Fanon, non è casuale perché è il nome di uno psichiatra di nazionalità martinicana che si era a lungo impegnato nella lotta di decolonizzazione dell'Algeria. Scegliere questo nome in un centro che si occupa di immigrati, significa situare il problema della salute mentale degli immigrati direttamente al centro dei conflitti sociali ed ideologici che li connotano. Di formazione io sono psichiatra, e quindi l'esperienza precedente ha confluito naturalmente in questo sviluppo. Forse vi chiederete perché parlare di immigrazione e salute mentale all'interno di un incontro come questo. Benché sia abbastanza ovvia la ragione, mi sento di dover dire qualche parola più generale sul problema. Per certi versi, riflettere sulla questione della salute mentale degli immigrati rappresenta una buona analogia e una sorta di metafora di un problema più generale che riguarda tutti gli operatori della salute, quella mentale in particolare, e che si può tradurre nei seguenti termini: non si può lavorare se non si è oggi disposti preliminarmente a interrogare in modo critico i nostri strumenti e le nostre pratiche perché le domande di salute stanno mutando. Stanno mutando perché i soggetti sociali stanno mutando. Quando si parla di reti e di comunità sono abituato a misurare la pertinenza di questi concetti nei contesti in cui li adopero. Se mi riferisco alle situazioni degli immigrati che vivono in una città come Torino, mi rendo subito conto che il termine comunità può rivelarsi infido e generico, benché sia abbastanza seduttivo. Dico infido e generico perché le comunità di immigrati, di fatto, non esistono; questi sono gruppi virtuali che noi spesso consideriamo omogenei, amorfi, come oggetti di politiche di intervento. Poi scopriamo in poco tempo che non esistono comunità magrebine o senegalisi, che non esistono comunità egiziane o etiopi, ma esistono soggetti che in modo anche autonomo ed originale costruiscono proprie reti, costruiscono proprie carriere. Il termine carriere è quello usato da alcuni antropologi canadesi per dire come i soggetti si organizzano in modo spontaneo secondo percorsi invisibili. Come operatori della salute mentale abbiamo innanzi tutto il compito di riconoscere che questo concetto di comunità e di rete va, quindi, di volta in volta tradotto nelle situazioni concrete, perché non sempre questa metafora ci offre degli strumenti operativi reali. Inoltre dobbiamo cominciare ad intravedere le contraddizioni e i conflitti in seno alle comunità e ai gruppi. Io non credo che si possa fare una buona opera di salute mentale se non si ha sempre presente il tema della conflittualità: conflittualità sociale, conflittualità ideologica, economica, religiosa. Se parlo di immigrati vi sono noti i problemi all'origine dei conflitti oggi e noi operatori di salute mentale abbiamo un ruolo critico nel leggere questi conflitti e nell'intervenire su di essi. Si parla di una conflittualità non generica; quando io penso ai conflitti con gli immigrati, penso a comportamenti che si traducono in atti di violenza che producono morte. Quindi non parlo di conflittualità invisibili, retoriche, ideologiche; parlo di corpi contro corpi, parlo di corpi sociali contro altri corpi sociali. Allora ci rendiamo conto di come sia difficile oggi ragionare in termini di comunità, dando per scontato un soggetto unico con il quale interloquire. Chiaramente la mia esperienza è circoscritta a Torino e non pretendo generalizzare questo lavoro, ma sicuramente alcuni degli aspetti del lavoro clinico svolto al centro Fanon possono quanto meno offrire delle suggestioni anche ad altre esperienze, non necessariamente analoghe per dimensioni o per caratteristiche urbane. Il terzo profilo che nel mio ragionamento vorrebbe essere messo in luce riguarda proprio la conflittualità che si determina quando ci si rivolge a considerare i bisogni di cura e i bisogni di salute non tanto con gli interlocutori e le comunità, ma fra operatori. A questo riguardo noi abbiamo verificato da anni che uno dei problemi particolari nell'accesso ai servizi pubblici da parte degli immigrati è la mancanza di adeguati strumenti da parte degli operatori. Spiegare cosa significa la mancanza di strumenti sarebbe un discorso estremamente complesso, in quanto una formazione adeguata ad incontrare persone che parlano altre lingue, altri linguaggi del corpo, della sofferenza e che esprimono in modo peculiare le loro richieste di aiuto ci trascinerebbe lontano. Basti qui ricordare che la conflittualità sperimentata con gli operatori sta in primo luogo nella loro scarsa o assente disponibilità a rimettere in discussione certi automatismi teorici. I nostri modelli tecnici e scientifici separati vengono replicati senza molte preoccupazioni con soggetti che provengono da tutt'altre esperienze. Quando io incontro assistenti sociali, psicologi e psichiatri, persino quelli animati da buone intenzioni, mi rendo conto di come sia rocciosa questa abitudine a ripetere gli stessi schemi interpretativi, gli stessi approcci terapeutici, gli stessi modelli riabilitativi, con persone che non sanno che farsene. Ancora una volta io qui intravedo un problema che è stato messo in luce in maniera acuta dall'esperienza di Basaglia e ripresa in tutti questi anni, ma riscoperta all'interno di discipline diverse e in particolare l'antropologia medica: noi non essendo quasi mai disposti a riconoscere i meccanismi di produzione degli oggetti e gli effetti che le nostre categorie hanno sulla produzione dei problemi, dimentichiamo le risorse di questi soggetti che dovremmo curare, i quali fanno il loro ingresso nelle nostre categorie diagnostiche, nei nostri spazi istituzionali e vi rimangono a condizione di non metterli in discussione. Il mio invito è quello di ricordare ciò che tutti noi operatori conosciamo da tempo: il rischio di produrre cronicità e di produrre soggetti virtuali, malati che, per il fatto stesso di entrare nei nostri circuiti e nelle nostre categorie, non ne usciranno più. E noi sappiamo che ci sono molte ragioni per non uscire da questi meccanismi; ci sono anche ragioni economiche, degli interessi concreti che possono spingere le persone a permanere in queste nicchie istituzionali. Tuttavia, se vogliamo parlare di deistituzionalizzazione e di reti sociali, dobbiamo chiederci qual è il ruolo delle scienze, degli esperti, degli operatori nel mantenere in un regime di dipendenza e di cronicità le persone di cui dovremmo occuparci. Le categorie diagnostiche che noi utilizziamo sono, da questo punto di vista, uno degli strumenti più rischiosi, e lo dico qui perché so che in una realtà come quella rappresentata questa mattina c'è sensibilità al riguardo, c'è diffidenza ad utilizzare un approccio tecnicistico, ad utilizzare delle categorie che dimenticano i bisogni reali delle persone che soffrono. Si può aggiungere anche che il tipo di scienza della salute di cui si parla non si preoccupa mai di far parlare di sé i sofferenti, ma ha già predisposto un intero dispositivo retorico nel quale catturare i soggetti della sofferenza. Noi ci preoccupiamo poco di vedere che cosa c'è dietro la statistica, dietro i risultati della cura, dietro le celebrazioni del metodo scientifico; dimentichiamo facilmente che ci sono persone che non possono dire di sé e della loro esperienze ciò che più conterebbe per noi operatori della salute. Oggi, grazie al contributo delle associazioni dei familiari, all'autorganizzazione dei soggetti che soffrono, finalmente si sono introdotti degli squarci in questo dispositivo onnivoro che è la retorica della scienza, la retorica aziendalistica che ha ricoperto i discorsi sulla salute di uno spesso strato di termini che dimenticano completamente i veri problemi. Qualcuno diceva che la scienza medica, a torto o a ragione, ha separato il sociale dal biologico. Certamente ne ha tratto ragione per il suo successo oggettivo, ma a quale costo? Noi adesso riconosciamo ad ogni passo che quel sociale riemerge, spesso in forme paradosse, spingendo per vedere riconosciute invalidità, per vedere riconosciuti piccoli privilegi; sappiamo che quel sociale non può essere cancellato. Immaginatevi questa stessa problematica laddove i soggetti provengono da altri mondi culturali, immaginate di quante nuove variabili queste problematiche e questi conflitti si arriscono e chiediamoci se i nostri servizi e i nostri operatori hanno gli strumenti appropriati per leggere questi bisogni. Mi sembra importante e parlo ai colleghi, agli operatori e agli esperti guardare con più attenzione agli amministratori, perché spesso sono loro che possono introdurre leve di cambiamento. Fino ad ora abbiamo immaginato che la medicina muta quasi in modo endogeno in virtù di scoperte, di avanzamenti, di riflessioni critiche e di esperienze, ma io sto verificando che talvolta sono proprio gli amministratori ad introdurre momenti di critica e di accelerazione all'interno di corpi professionali che resterebbero invece statici e bloccati nella loro reiterata professionalità. Questo l'ho verificato in un contesto del tutto diverso, in Mozambico, dove, lavorando accanto ad esperti della salute mentale, mi sono reso conto che erano gli amministratori ad avere le idee più originali e la volontà di rischiare degli stili di intervento che i medici, invece, non osavano accogliere ed accettare temendo di perdere una parte di potere e di egemonia sul discorso della cura e della salute. Quindi mi sembra che anche questa prospettiva, quando si guarda ai nuovi soggetti, debba essere accolta. Una riflessione critica ed ostinata sul sapere medico psichiatrico è la condizione perché gli altri soggetti possano occupare davvero il ruolo che loro compete nel disarticolare questi automatismi. Le contraddizioni che animano le società e le città sono tali che non è possibile intervenire sulla salute da un punto di vista professionale e separato. Nelle città ci sono mondi differenti che non comunicano se non in modo effimero e provvisorio fra loro; ci sono città differenti, lingue diverse. Le città di Roma, Torino e Potenza potrebbero essere analizzate da un sociologo il quale coglierebbe proprio questa pluralità di città che non comunicano se non in modi puntiformi. Allora chiediamoci quali siano le strategie operative e di rete capaci di far articolare discorsi, di far incontrare questi soggetti e queste città molteplici, così differenti, così separate. |
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