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DOVE VA LA PSICHIATRIA?

Intervista a Eugenio Borgna a cura di Roberto Camarlinghi
Animazione Sociale nr. 12/2001, Via Giolitti 21, 10123 Torino, tel 011/8142717,

email : animazionesociale@gruppoabele.org e animazionesociale@gruppoabele.org

La legge di riforma psichiatrica, nota come «legge Basaglia» o «legge 180», fu approvata il 13 maggio del 1978. Fu una legge innovativa e di grande significato etico-politico. Suo obiettivo era sì chiudere i manicomi, ma più ancora «avviare una diversa comprensione del problema, strada lunga e difficile dato che richiede non di vincere ma di convincere». E infatti, già l’anno dopo, Basaglia avvertiva che nel Paese stava riemergendo il «fascino discreto del manicomio».
Oggi, dopo oltre 20 anni, nel Paese è in corso un dibattito di riforma della 180.

Nelle scorse settimane, oltre agli annunci di una svolta nelle politiche pubbliche in materia di tossicodipendenze, si è avuta notizia anche di una imminente riforma della 180 – la legge voluta dallo psichiatra triestino Franco Basaglia, con cui l’Italia, primo paese al mondo, nel 1978 avviava la chiusura dei manicomi, integrando l’assistenza psichiatrica nel Servizio sanitario nazionale e spostando la terapia sui territori di residenza dei pazienti.
La discussione, in corso attualmente alla commissione Affari sociali e Sanità della Camera, è stata innescata dalle proposte di legge Burani Procaccini (FI) e Cé (Lega). Da opposizione, psichiatria democratica, associazionismo e sindacati, è arrivato un no secco alla proposta, accusata di «mettere a repentaglio il diritto delle fasce più deboli e sofferenti della popolazione al riconoscimento e alla realizzazione della loro piena dignità e personalità di cittadini». A favore si sono invece espresse molte associazioni di famiglie, in troppi casi lasciate sole con il loro insostenibile carico di problemi.
Ma cosa prevedono le nuove norme? Due, soprattutto, i punti controversi. Il primo riguarda il TSO, che l’attuale legge consente «su proposta motivata di un medico», mentre nel progetto di riforma potrà essere richiesto da «chiunque ne abbia interesse»: familiari, operatori sociali, psichiatri o medici di famiglia. E non solo come misura «d’urgenza», che dura sette giorni eventualmente rinnovabile (come è oggi), ma «ordinaria», prolungabile fino a un massimo di due mesi rinnovabili. Il secondo riguarda l’apertura di «strutture residenziali con assistenza continuata» (SRA) che potranno accogliere «non più di 50 malati» (se ne prevedono almeno tre per Regione). «La proposta riapre di fatto i manicomi…» ha commentato Giuseppe Dell’Acqua, successore di Basaglia a Trieste.
Siccome il tema dell’assistenza psichiatrica è complesso e delicato – forse tecnico, in realtà culturale (in filigrana possiamo vedere: il rapporto che la società sceglie di avere con la diversità: se di distanziazione o di comprensione, il senso attribuito alla cura, i paradigmi in gioco nel rapporto con le persone sofferenti…), un tempo si sarebbe detto «politico» ritenendo questi territori di confine cruciali per la vita personale e collettiva – abbiamo chiesto una riflessione a Eugenio Borgna, che questi territori frequenta da sempre nel tentativo strenuo e coraggioso di portare la psichiatria «dalla parte dei pazienti». Borgna ci accoglie nel Servizio di psichiatria, all’Ospedale Maggiore di Novara. Non indossa il camice, ma un pullover azzurro. Sul tavolo dello studio, tra pile di libri accatastate in fragile equilibrio, i fogli delle proposte di legge, ben sottolineati. La porta resta aperta. Fuori, nel corridoio, transitano i pazienti. Ogni tanto, durante l’intervista, qualcuno si affaccerà, reclamerà uno sguardo o una parola, poi scomparirà.

Domanda. Professor Borgna, lei sostiene l’importanza di una psichiatria «dalle porte aperte», capace di ricreare – anche tra le mura di un vecchio ospedale come questo – un’atmosfera terapeutica, fatta non di chiusure, di contenzioni di qualsiasi natura, ma di umanità, di relazioni. Come si pone di fronte ai trattamenti sanitari obbligatori, che le proposte di legge sembrano voler facilitare?

Risposta. Al di là della violenza ad essi fatalmente legata, sono trattamenti che lasciano nella memoria e nel cuore lacerazioni insanabili e non cicatrizzabili. La legge 180 li introduce come provvedimenti eccezionali, e credo che tali debbano restare. Per questo trovo discutibili le attuali proposte di riforma della legge 180.

La violenza non è terapeutica

La cosa più sconvolgente è questa distinzione fra TSO d’urgenza e TSO ordinario. Oggi, come lei sa, il TSO avviene con modalità unica: lo propone uno psichiatra o un medico del servizio pubblico, lo conferma un altro medico, e con un’ordinanza il sindaco dà il suo benestare, salvo che non voglia riesaminare o discutere la decisione dei medici. Il paziente viene quindi ricoverato in ospedale con una contestuale comunicazione alla Procura della Repubblica o al giudice tutelare, che in teoria avrebbe il diritto di verificare se siano esistite le condizioni reali per il ricovero, trattandosi comunque di una limitazione della libertà individuale, quindi di un atto di grande importanza. Adesso invece si vuole consentire il TSO d’urgenza su richiesta di «chiunque ne abbia interesse» – un famigliare, un assistente sociale, chiunque –, basta la convalida di uno psichiatra entro un massimo di 72 ore, un tempo necessario e sufficiente per rendere tragica la condizione psicologico-umana del soggetto che venga preso e portato in ospedale.

Oggi, anche con questo procedimento che sembra complesso e rischioso, perché mira a svolgersi con le più ampie garanzie costituzionali e giurisdizionali, le cose avvengono già in tempi estremamente rapidi. Accelerare ancora un provvedimento che dovrebbe essere preso soltanto in casi eccezionali, rende catastrofica una qualunque ipotesi che voglia trasformare le attuali norme di realizzazione del TSO in queste, che lo renderebbero infinitamente più semplice, ma anche più sospetto di interventi illeciti o comunque inadeguati e spropositati.

Poi c’è la seconda forma di TSO, quella chiamata «ordinaria», che immagino avvenga ancora con la forma e con la modalità attuale, questo non è chiaro, per un tempo massimo di due mesi. Oggi il TSO ha la durata ipotetica di una settimana, anche se può essere interrotto in qualunque momento. Un paziente arriva al servizio in condizioni tali per cui rifiuta ogni cura e sta in TSO per il tempo necessario a ottenere il suo consenso. Che a volte è immediato, come in genere avviene da noi, a volte si ottiene con la somministrazione della cura. Ma anche se il TSO ha una durata massima iniziale di sette giorni, può essere rinnovato di sette giorni in sette giorni, anche per mesi interi. Per cui, anche l’obiezione che viene fatta in Commissione, «i tempi di degenza sono oggi estremamente brevi», non sta in piedi perché se ci fossero queste condizioni di urgenza protratta il TSO si rinnova.

Quindi queste varianti sono: la prima, direi, anarchica perché consente qualunque ricovero che avvenga sulla spinta di aspetti apparentemente gravi, in realtà magari legati soltanto a condizioni affettive o emozionali molto intense. Se poi «chiunque» può richiedere il ricovero della persona sofferente, ritenendola in condizioni di «pericolosità sociale» – ritorna anche questa categoria, che era stata cancellata dalla legge 180 – si sottrae al giudizio medico una decisione così drammatica sia dal punto di vista psicologico-umano, sia dal punto di vista giuridico. Inoltre, già oggi, se un paziente ha bisogno di cure ma le rifiuta, il TSO viene a essere allungato e prorogato, nonostante i vincoli che ogni Regione stabilisce ai reparti delle aziende ospedaliere. In Piemonte, ad esempio, ai servizi di psichiatria si chiede di rimanere dentro standard di degenza che non superino i dieci giorni.

La cura è un continuum

Domanda. Con lei in genere si discorre di filosofi e poeti, si gettano sonde per rischiarare quel che avviene negli abissi delle soggettività. Ammetto che fa un certo effetto sentirla parlare, e anche vibrare, su revisioni di leggi, assetti organizzativi, aziendalizzazione.

Risposta. Vede, la cura si svolge dentro contesti che non sono solo relazionali. Leggi e assetti organizzativi possono condizionarne l’efficacia. Le faccio un esempio. Qui a Novara, fino a quando eravamo costituiti come Unità operativa ospedaliera ambulatoriale, fin quando cioè avevamo una conoscenza contestuale ampia, avevamo un numero di TSO limitatissimo. Adesso essendo cambiate le amministrazioni, facciamo parte dell’azienda ospedaliera, senza avere più gli ambulatori e le comunità che avevamo prima. E il numero di TSO è cresciuto. Se si conosce bene un’area territoriale i pazienti, anche quelli che si ammalano per la prima volta, trovano un’accoglienza tale per cui il consenso alla cura diventa più facile, l’interpretazione dei gesti e delle parole si fa più acuta perché collocata in un continuum di interventi. Vede come cura e organizzazione, cura e legge sono intrecciate? Se però si aprono le condizioni che facilitano il TSO, è ovvio che cade ogni stimolo a non renderlo operante. In un caso simile i familiari oppure gli operatori sociali avrebbero, anche solo per paura, la spinta istantanea e immediata a rinchiudere chiunque abbia comportamenti anomali. Comportamenti che possono essere legati a un’infinità di cause psicologiche che dovrebbero invece essere analizzate, scandagliate, ricercate.

Ritornerebbe la psichiatria che ricovera soltanto pazienti gravi, con un’ulteriore degenerazione delle cose. Noi oggi abbiamo nel reparto pazienti di ogni tipo, di ogni cultura. Se cominciassero ad arrivare TSO da ogni parte, avremmo solo questi pazienti la cui presenza renderebbe poi anche impossibile tenere un clima di cura aperto, un reparto con le porte aperte, senza contenzione.

L’altro passaggio riguarda queste «strutture residenziali con assistenza continuata» da 50 ospiti, che ogni Regione dovrebbe avere. «Almeno tre, per accogliere i malati più gravi». Certo sono strutture, queste, che si affiancherebbero a quelle comunità terapeutiche previste già dalla legge, che dovrebbero ospitare per tempi lunghi pazienti che non abbiano più bisogno di sola cura ospedaliera, ma di cure riabilitative. Questi 50 posti, moltiplicati per tre, fanno 150 posti letto per pazienti che finirebbero fatalmente sommersi da condizioni di abbandono tipicamente manicomiali. Anche i manicomi condotti abbastanza bene, infatti, avevano dei reparti in cui non c’era violenza, ma in cui comunque si entrava senza che la speranza di uscire fosse certa. Dipendeva dalle interpretazioni che ogni singolo medico dava delle condizioni cliniche del paziente. Ma entrare in strutture chiuse alimenta, accentua ed esaspera le angosce e le ansie di ogni psichiatra, che finisce col trattenere per tempi molto lunghi pazienti che invece dimessi, restituiti al loro ambiente, potrebbero migliorare. Insomma rinascerebbe quella che è sempre stata la dinamica delle strutture manicomiali: quella di ospitare pazienti che nel momento in cui entrano e si fermano oltre un certo periodo di tempo, a volte anche solo un mese, finiscono con l’essere abbandonati psicologicamente dai familiari.

Come lei sa, una degenza che tenda a esaurirsi in un periodo limitato di tempo sollecita e mantiene vivo l’interesse e le visite dei familiari. Se una degenza si prolunga in psichiatria, al di là di un mese o di 40 giorni, è fatale che il rigetto della famiglia si faccia radicale e completo. Forse questa è l’obiezione più dura, ma anche più realistica. Senza contare che costruire strutture per 50 posti letto, umane e psicologicamente organizzate, significa spendere un sacco di soldi. A meno di non ricreare stanzoni con sei, otto, dieci letti, allora magari i costi si riducono, ma questo mi auguro non accada più. Vedo poi un altro rischio: che il passaggio da 50 letti a 60 letti, quindi 70 e così via sarebbe una cosa più o meno automatica, come avviene in Italia. Alla fine ritroveremmo le concentrazioni manicomiali.

Domanda. Nella legge 180 le famiglie non sono mai nominate, nelle proposte di riforma sono presenti in tutte le decisioni e hanno diritto anche a sussidi. Da un eccesso all’altro?

Risposta. Si dice espressamente: «I familiari non possono essere obbligati alla convivenza con i malati di mente maggiorenni». Già il linguaggio, «malati di mente»… significa considerarli come appartenenti a un altro mondo, al mondo dell’alienità, le sembra? Ma non è che oggi i pazienti siano obbligati a stare con i familiari perché dovrebbero esserci comunità terapeutiche che li ospitino quando questi non possano vivere in strutture familiari povere oppure precarie. Se si sancisce il principio, addirittura formale, che i famigliari non siano tenuti a convivere con una persona sofferente, si figuri, è ovvio che in un mondo come questo, con la famiglia certo in crisi, chi mai si tiene per qualche milione di sussidio un paziente a casa? È anche un rovesciamento radicale delle prospettive culturali e ideali che facevano della psichiatria una disciplina certo farmacologica, ma anche psicologica e sociale, tale da rendere tutti coinvolti in uno stesso destino da condividere insieme. È ovvio che questa spinta ideale, che in realtà corrisponde anche alla reale dimensione psicologica di ogni forma di sofferenza psichica, è difficile a volte da cogliere se i pazienti vengono considerati come persone che appartengono ad un altro mondo.

Meno case di cura private

Domanda. In psichiatria, come in tutta la sanità, la direzione sembra quella di un’apertura sempre maggiore al privato. Così è anche nelle proposte che stiamo commentando, dove la gestione dell’assistenza sarebbe affidata a un’integrazione pubblico-privato. Posso domandarle cosa ne pensa?

Risposta. L’integrazione pubblico-privato nell’assistenza psichiatrica è un punto certo più di natura economico-politica che non psichiatrica in senso stretto. Una cosa posso però dire. Mentre nella mia esperienza le case di cura private di area medica sono a volte a livelli altissimi, pensiamo a quella che dirige Veronesi ad esempio o Dioguardi, le case di cura private in psichiatria sono invece molto spesso problematiche, anche difficili da condividere sul piano delle modalità di assistenza e di cura. Perché certo curare un paziente psichico ha costi elevatissimi, per cui se si vogliono ridurre gli infermieri in servizio è ovvio che l’alternativa è la contenzione del paziente, in particolare l’utilizzo dell’elettroshock che risulta molto più «comodo» perché, a differenza dei farmaci, non esige tutta quella continuità di assistenza che gli psicofarmaci invece richiedono. In Italia poi le case di cura private hanno anche degenze di serie A, per pazienti che pagano, degenze di serie B, per pazienti che pagano parzialmente la retta, e di serie C per la parte concordata convenzionata con il sistema sanitario nazionale. Per cui rendere ancora più ampie – già sono amplissime oggi – le modalità di ricovero in case di cura private è estremamente rischioso, perché solo il servizio pubblico può garantire, proprio per i costi elevatissimi, un certo tipo di cure.

Il Servizio di psichiatria in cui ci troviamo è in forte passività, come l’Anestesia, la Radioterapia, i Servizi di igiene pubblica, ecc. Cioè tutti i servizi, in particolare quelli che hanno una dimensione sociale, costano. Ma non credo che il governo pensi di privatizzare i servizi di anestesia o di rianimazione oppure tanti altri servizi medici. Semmai dovrebbe essere il servizio pubblico che si sostituisce alle case di cura private esistenti per sottrarre loro i pazienti.

Gli stretti confini di una psichiatria biologica

Domanda. A questo punto le chiederei di portarci dietro le quinte della psichiatria. Nei suoi libri, lei non smette di confutare i tentativi della psichiatria di presentarsi sulla ribalta come scienza, rifacendosi ai paradigmi biologici del conoscere. Con la tradizione fenomenologica, lei ribatte: no, la psiche non è un fatto biologico, ma il nostro modo di essere al mondo. E le esperienze psicotiche non si possono considerare «unità naturali di malattia», ma modalità distorte e certo dolorose di essere nel mondo. Quali idee di uomo, del suo soffrire e del suo star bene, stanno dietro posizioni così diverse?

Risposta. Nella mia esperienza clinica, prima al vecchio manicomio femminile di Novara, poi nei servizi ospedalieri e ambulatoriali, mi sono reso conto di una cosa. Che i sintomi, i sintomi psichiatrici, cambiano nei loro contenuti e nella loro forma nella misura in cui ci confrontiamo con essi, con le persone che li manifestano, in un atteggiamento di disponibilità dialogica e di partecipazione emozionale piuttosto che in un atteggiamento di distacco e neutralità, di distanza psicologica e umana. Perché accade questo? Perché non siamo coscienze isolate e chiuse in sé, non siamo monadi con le finestre sigillate, non siamo una cosa biologica. «Noi siamo un colloquio», dice un verso di Holderlin. Siamo sempre immersi, direi originariamente costituiti nel contesto vertiginoso e mutevole della reciprocità della comunicazione e delle relazioni. Per questo i sintomi della sofferenza interiore, di quelle che con linguaggio gelido e indifferente si definiscono «malattie mentali», sono prima di tutto fenomeni relazionali, che quindi cambiano nei diversi contesti interpersonali e situazionali. Una forma autistica di vita, ad esempio, che può sembrare impenetrabile e ghiacciata nella sua solitudine disperata, può essere allora espressione di una forma di difesa e di autoprotezione nei confronti di un ambiente sociale vissuto soggettivamente nella sua aggressività e invadenza. In questo modo l’esperienza psicotica si ricostituisce come realtà diversa dalla nostra, ma sigillata da una alterità, riempita di senso, e non da una spietata alienità.

Domanda. I sintomi sono fluidi, non hanno la faccia di pietra ma racchiudono in sé una dimensione narrativa, è così?

Risposta. Sì, i sintomi sono esperienze vissute. E inoltre sono liquidi. Non tematizzano cioè una realtà rigida, impenetrabile, modificabile solo dalla somministrazione farmacologica; tematizzano invece una realtà friabile e camaleontica che cambia e si trasforma in riferimento ai modi con cui il paziente viene avvicinato, accettato o rifiutato. Se nel parlare con il paziente uso un linguaggio alienante, distruggo anche quelle risorse interiori che altrimenti vivrebbero, non le sembra? Questa plasmabilità, e questa liquida adattabilità, dei sintomi fanno immediatamente presagire l’importanza talora decisiva delle atmosfere e degli atteggiamenti interiori presenti in ciascuno di noi – di disponibilità umana piuttosto che di gelida scientificità – quando ci confrontiamo con esistenze sofferenti. Al punto che se i servizi di psichiatria, ambulatoriali e ospedalieri, non si allontanano dai paradigmi che sto descrivendo, si riduce fino a scomparire l’esigenza di ricorrere a trattamenti sanitari obbligatori. Cambia l’orizzonte della cura e già nei primi giorni di degenza si attenuano le conflittualità interne a ogni coscienza malata.

Dicendo questo non si vuole eliminare dall’orizzonte della psichiatra il paradigma farmacologico. Anche quelli che hanno cercato di dare alla psichiatria confini più ampi degli stretti confini di una psichiatria biologica, ritengono che si dia cura solo nella contestuale applicazione di queste tre grandi aree terapeutiche: farmacologica, psicologica e sociale, che possono essere privilegiate l’una nei confronti dell’altra, a seconda della tipologia di sofferenza che il paziente ha. Senza questa contestuale, triplice concordanza di cure farmacologiche, psicologiche e sociali nessuna psichiatria sta in piedi.

Non bastano i farmaci

Domanda. Eppure nel dibattito in corso alla commissione Affari sociali si sostiene che la legge 180 ha confinato per troppo tempo in un angolo la dimensione biologica…

Risposta. Affermare che oggi, dopo oltre vent’anni di legge 180, si sia finalmente capito il valore della componente farmacologica è falso. Semmai è vero il contrario: la dominante formazione biologica di molti psichiatri non ha ancora permesso di fare della psichiatria sociale e comunitaria senza la quale non c’è psichiatria possibile. Tra l’altro la legge di riforma psichiatrica è del ’78, gli psicofarmaci hanno cominciato a entrare in circolazione nel 1952. Prima la cloropromazina, un neurolettico antipsicotico (ancora in commercio), poi nel 1957 l’imipramina, il primo dei farmaci antidepressivi. E con i soli psicofarmaci per 26 anni – è giusto il calcolo? – in Italia i manicomi hanno continuato ad essere fosse dei serpenti come erano negli anni in cui gli psicofarmaci ancora non esistevano. Quindi, se si fosse trattato in quegli anni di applicare esclusivamente la terapia farmacologica, al di là di ogni implicazione psicologica e sociale, come in effetti accadde, in quei 26 anni i manicomi avrebbero dovuto scomparire o comunque trasformarsi, cessare di essere fosse dei serpenti.

Quindi i soli psicofarmaci, che oggi vengono trionfalizzati, non hanno cambiato nulla, almeno in Italia, nelle condizioni di vita e di cura dei pazienti. Perché la dimensione psicologica e sociale veniva ignorata, calpestata, irrisa anche, in quegli anni, da molti di coloro che parlano soltanto di psichiatria biologica. Quando nel 1970 sono diventato direttore dell’ospedale psichiatrico di Novara, gli psicofarmaci esistevano da 18 anni: e nonostante questo, pazienti legati al letto a volte per mesi o anni interi, pazienti che dal letto si alzavano ma venivano subito legati sulle panche dove rimanevano per tutta la giornata.

I farmaci sono utili, ma non sono l’unica risposta. Soltanto se si tiene conto degli aspetti psicologici, cioè dei modi con cui ciascuno vive la sua esperienza psicotica, soltanto se il luogo di degenza primario sia quello rappresentato dai ricoveri nel servizio di psichiatria, con degenze tendenzialmente brevi, anzi istituzionalmente brevi, si fa una psichiatria come quella che ha fatto Basaglia e anche altri, seppur in ribalte infinitamente più oscurate. E si mantiene nella famiglia, e anche in ciascuno di noi, la spinta ideale a fare tutto il possibile perché la condizione acuta scompaia.

In questo noi siamo impegnati solo nella misura in cui sappiamo che un paziente dimesso da un servizio ospedaliero sarà poi seguito da altri psichiatri che abbiano a vivere accanto a lui, che lo vedano ogni giorno, mantenendolo però nella misura del possibile in un contesto familiare che gli consenta intanto di sentirsi uguale agli altri, e poi di sviluppare tutte quelle risorse interiori che riescono a essere realmente umane soltanto se il contesto ambientale è quello normale e non quello invece creato da paradigmi artificiali, a volte anche insostenibili, come sono quelli che caratterizzano la vita ospedaliera.

Se viene meno anche questo orizzonte di senso, questo slancio comune che veda appunto impegnati tutti a rendere brevi le degenze, a considerare che anche il decorso della malattia, che nel dibattito in Commissione viene trionfalizzato, dipende molto, anzi secondo alcuni in maniera essenziale, dal modo con cui la persona che ha vissuto una fase di sofferenza acuta venga seguita dopo questa fase. Perché condizioni ambientali chiuse, come erano quelle, seppure estreme, dell’ospedale psichiatrico, non solo cronicizzavano il decorso di malattie che, di per sé acute, si sarebbero risolte in ambienti terapeutici adeguati, ma, come ho visto anch’io, e come oggi viene in genere riconosciuto, questi modelli arcaici di cura prolungata nel tempo creavano forme di sofferenza psichica che invece, oggi che i manicomi qui in Italia sono scomparsi, non esistono più. Alcune varianti di esperienze schizofreniche, che dilagavano all’interno dei manicomi, oggi sono scomparse proprio perché i pazienti vivono all’interno di strutture vive, come sono quelle ambulatoriali, come sono quelle residenziali.

Indubbiamente questo costa fatica, costa impegno, costa anche sacrificio. Ma implica soprattutto la consapevolezza che in psichiatria l’impegno deve essere continuo, perché ogni esperienza psicotica non nasce ex opere operato da fattori biologici o che comunque le forme psicotiche nelle quali è preminente l’aspetto biologico, e quindi l’urgenza, la necessità delle cure farmacologiche, sono poche. Le vere scompensazioni psicotiche, come anche la violenza che in genere viene attribuita ai pazienti psichici, rappresentano forme di malattia infrequenti rispetto invece al dilagare di queste forme di sofferenza psichica che oggi chiamiamo nevrotiche e che sono legate allo spirito del tempo.

La follia di cui abbiamo paura

Domanda. Il Ministero della sanità stima circa 500mila persone affette da schizofrenia in Italia. È di queste che stiamo soprattutto parlando?

Risposta. Sì. Tutta l’impalcatura della psichiatria manicomiale si reggeva sulla realtà di quella che è la malattia, oggi certo come ieri, più inquietante, più grave, più sconosciuta, più enigmatica che è la schizofrenia. Quella che i medici chiamano «psicosi» e l’inconscio collettivo definisce «follia». La follia, quella di cui tutti hanno paura, quella di cui si occupa anche il dibattito in atto, non riguarda se non l’esperienza schizofrenica, che ha in Italia, come in Australia o in Africa, un’incidenza dello 0.8%, massimo 1.2% su una popolazione generale.

Teniamo presente poi che all’interno di questa realtà clinica complessa, che chiamiamo schizofrenia, 1/3 dei pazienti, cioè il 30% delle schizofrenie – come hanno dimostrato ricerche di psichiatri svizzeri tra cui Manfred Bleuler – oggi guarisce spontaneamente. Una guarigione resa possibile dai servizi di psichiatria ospedaliera e accelerata dalla somministrazione di psicofarmaci ad azione antipsicotica. Un tempo invece, finendo nei manicomi o comunque in strutture chiuse, queste schizofrenie da acute rischiavano di trasformarsi in croniche per la cronicizzazione che l’ambiente determinava. Rischio che non vedo scongiurato se si facilitano trattamenti coatti e si creano strutture alternative dove sarà più facile il ricovero, più semplice la deresponsabilizzazione del medico.

Un altro 30% degli schizofrenici giunge invece a quella che è definita «guarigione sociale». Mentre la prima è una guarigione «clinica», nel senso che scompaiono i sintomi, questo ulteriore terzo di pazienti riacquistano modelli di vita adeguati socialmente, anche se con gradazioni diverse, al di là del fatto che sopravvivano o meno sintomi all’interno della loro condizione di vita. È dunque soltanto nel restante 30% che la malattia tende a evolversi nel tempo, o a mantenersi con aspetti che però cambiano di caso in caso anche nel corso del tempo – benché psichiatri serissimi come sono stati in Svizzera Luc Ciompi, direttore della clinica universitaria di Berna, e Manfred Bleuler, direttore della clinica universitaria di Zurigo, ritengano che anche questo 30% di pazienti che si cronicizzano o che tendono comunque a presentare i sintomi nel corso del tempo, possa essere ridotto se l’ambiente in cui i pazienti vivono è un ambiente psicologicamente terapeutico e socialmente terapeutico. Gli stessi Ciompi e Bleuler arrivano a dire che la percentuale delle schizofrenie che si cronicizza, se si realizzassero integrate e adeguate misure terapeutiche, non sarebbe superiore al 10%: scenari, questi, clinici rigorosissimi fondati su paradigmi scientifici incontestabili.

Se le cose stanno così, non si vede il pericolo, modificando la legge di riforma psichiatrica, di creare cattedrali nel deserto deresponsabilizzando psichiatri e collettività? Tra l’altro questa spinta a modificare la legge avviene negli stessi giorni in cui la Francia sembra orientata ad adottare il modello di assistenza psichiatrica italiana. Un modello che concettualmente è di gran lunga il migliore dei modelli possibili, anche se poi nella pratica non è stato applicato con rigore e presenta anzi lacune gravi. Molti servizi di psichiatria oggi non hanno niente da rimpiangere nei confronti di quell’ospedale psichiatrico di Novara dove cominciai a lavorare.

La voce dei poeti

Domanda. Vorrei chiudere leggendole un brano di Alda Merini, poetessa che ha fatto l’esperienza del manicomio. Me lo sono copiato, sapevo che sarebbe venuto buono a conclusione di quest’incontro. Dice: «Una volta un’ammalata mi appioppò un sonoro ceffone. Il mio primo istinto fu quello di renderglielo, ma poi presi quella vecchia mano e la baciai. La vecchia si mise a piangere: “Tu sei mia figlia” mi disse e allora capii che cosa aveva significato quel gesto di violenza. Di fatto non esiste pazzia senza giustificazione e un gesto, che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo, coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini».

Risposta. Bellissimo. Bisognerebbe che lo leggessero anche quelle schiere impazzite di psichiatri farmacisti, tutti coloro che trionfalizzano il paradigma esclusivamente biologico, dove tutto è destino che nasce all’interno di circuiti nervosi impazziti. Tesi questa apparentemente scientifica, in realtà impregnata di una ideologia materialistica e positivistica per cui ogni esperienza umana che si allontani o comunque sia diversa da quella che viene prospettata come unica ragione normativa di realizzazione, nasce da una alterazione organica del cervello. Già Griesinger, nell’Ottocento, parlava di encefaloiatria, di una psichiatria dove sono in gioco soltanto delle trasmissioni neuronali difettose che bisogna restaurare, riportare alle condizioni iniziali, così scomparirà la depressione, scomparirà l’ansia, ma soprattutto scompariranno i sintomi della follia che nessuno tollera se non faticosamente e drammaticamente.

Ma la psichiatria non è questo. La psichiatria è una disciplina insieme rigorosa e umana. Ha bisogno della riflessione psicologica, del confronto con la filosofia, della voce dei poeti. Ne ha bisogno perché il suo oggetto non è se non la vita interiore, che può anche impazzire certo, ma che non può certo essere ridotta a semplice emanazione di un cervello che tanto più è perfetto nei suoi meccanismi neuronali e tanto più è sottratto agli artigli e alle ombre delle sofferenza, dell’angoscia, della depressione.

Eugenio Borgna - libero docente di clinica delle malattie nervose e mentali all’Università di Milano - primario del servizio di psichiatria all’Ospedale Maggiore di Novara - c.so Mazzini 18 - 28100 Novara - tel. (0321) 3733440.

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