Terza parte di dieci parti (Vai alle parti 1, 2, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10) Da Perrella a Sciacchitano Padova, 3 settembre 1997 Caro Antonello, come ti avevo promesso, rispondo con molto piacere - anche se con un mese di ritardo, ma sono appena ritornato dalle vacanze, giustamente lunghe - alla tua del 29 luglio. Ho scritto la lettera aperta, alla quale tu replichi, proprio perché mi premeva favorire, magari in modo un po' provocatorio, all'interno di Spaziozero, la precisazione di alcuni termini teorici che mi sembrano decisivi. Naturalmente non sono affatto d'accordo con te, e mi sembra una buona cosa che si possa non esserlo, pur collaborando tutti allo stesso Movimento, che giustamente, come tu dici, non è e non dev'essere monolitico. Ma un conto è che non lo sia, un altro è che non ci s'intenda neppure su alcuni minimi punti fondamentali. Se questo fosse il caso, sarebbe inutile farsi illusioni: tutto ciò che stiamo facendo sarebbe perfettamente inutile. Non solo l'unico a temerlo: Sergio Erba mi ha telefonato per chiedermi di pubblicare la mia lettera aperta sul Ruolo terapeutico, aggiungendo di essere perfettamente d'accordo con me. A tutt'oggi non ho avuto altre risposte. Spero che ce ne siano. Penso anche che sarebbe utile pubblicare nella nostra rubrica questi scambi epistolari (ammesso che ce ne siano: ma intanto io e te stiamo corrispondendo), perché solo un effettivo dibattito pubblico può far depositare opinioni ferme sui punti decisivi di cui parlavo prima. E temo che, per questo, non bastino i convegni. Troppe volte ho constatato, in troppe discussioni, che le opinioni di molti di noi mutano totalmente nel giro di pochi minuti e ciò mi sembra un indizio preoccupante proprio della nostra mancanza di chiarezza su punti fondamentali. Spesso siamo convinti d'essere perfettamente d'accordo, ma basta poco - per esempio l'uso di una parola che per qualcuno significa cose leggermente diverse che per qualcun altro - per constatare invece che l'accordo è solo apparente. In realtà, l'unica cosa che ci accomuna davvero tutti è che la legge 56 non ci piace. Ma questo non basta davvero per far funzionare un Movimento; ci vorrebbero anche una o due idee comuni su come le cose potrebbero andare meglio. E, da questo punto di vista, confesso che a voltemi pare che non ci sia assolutamente nessuna chiarezza nemmeno fra di noi. Ma vengo al contenuto della tua replica. Ti dirò francamente quel che penso, come tu stesso hai fatto con me. Dirò altrettanto francamente quel che penso anche delle posizioni di altre persone che fanno parte del Movimento. Spero che nessuno si offenda. Sarebbe veramente intollerabile se qualcuno di noi non sopportasse che altri dica francamente quel che pensa, perché significherebbe che passiamo il tempo a difenderci da nemici immaginari invece che a cercare di capire come possiamo risolvere i nostri problemi. In primo luogo, ci tengo a segnalare l'evidenza del fatto che a me, della psicoterapia in quanto tale, non è mai importato assolutamente niente. Per me nella psicanalisi si tratta di ben altro che dell'eventualità di rendere più tollerabile per qualcuno la miseria civile e morale in cui tutti viviamo. Si tratta invece (niente meno!) della formazione, vale a dire della possibilità di custodire almeno qualche briciola di alcuni princìpi morali e civili che ci sono stati trasmessi e che abbiamo il dovere (almeno credo) di trasmettere a nostra volta ad altri. Se la psicanalisi non serve a questo, a che accidente serve? Posta la breve premessa, devo dire di non poter condividere affatto la distinzione che fai tu fra psicoterapia come conformazione e psicanalisi come etica, e questo per un motivo semplice e preciso, ma assolutamente decisivo: non si può sapere in nessun modo che cosa sia psicanalisi e che cosa sia psicoterapia. Non lo si può sapere in partenza, perché l'uso che qualcuno farà della propria esperienza non dipende graziaddio né dalla volontà né dal metodo del suo terapeuta o analista che sia; non lo si può sapere dopo perché non si può dimostrare in nessun modo (anche se lo si può arguire)che un'analisi è stata veramente tale (per lo meno è quanto deduco dal clamoroso fallimento del programma lacaniano di passe). Il fatto è che nessuno può dire: questo è etica, quello invece no. E soprattutto nessuno deve dirlo. Nessuno infatti può giudicare qualcun altro su qualcosa che è e dev'essere per lui totalmente intimo ed essenziale: la giustezza di un'azione. Si suppone che lo faccia il Padreterno nel giorno dell'ultimo giudizio. Ma, da quanto sta scritto nella Lettera ai Romani si deduce che su un argomento così spinoso non giudica neppure lui, perché il suo giudizio, che è l'unico giusto per definizione, consiste solo nel far ritornare su di noi i giudizi che abbiamo formulato in vita nostra (San Paolo lo chiama katakrònein, vale a dire giudicare retroattivamente). E come potremmo noi poveri mortali pretendere di fare quel che non fa neppure Dio? Per questo te lo dico francamente: la tua distinzione a priori fra ciò che è etico e ciò che non lo è mi pare non solo impossibile da sostenere, ma anche profondamente colpevole dell'unica colpa imperdonabile: quella contro lo spirito. In base a che cosa si può dire se qualcuno sta facendo o ha fatto un'analisi o una psicoterapia? In base al metodo che è stato usato dal suo terapeuta o analista? Ma vedo mille esempi di analisti arcinoti che sostengono tesi perfettamente equivalenti alla conformazione di cui parli tu, mentre non posso non far risalire la giustezza d'un atto a chi lo compie, del tutto a prescindere da chi eventualmente lo abbia guidato in un'analisi o in una terapia. Non ho nessuna simpatia per la psicoterapia comportamentale. Ma come posso escludere a priori che qualcuno, che ne abbia fatta una, ne abbia tratto una posizione veramente etica? Non solo non posso farlo, ma, quand'anche per miracolo lo sapessi, non potrei nemmeno dirlo, semplicemente perché non avrei nessun diritto di farlo. "Psicanalisi" e "psicoterapia" sono parole vaghe, i cui significati non possono essere definiti a priori, e soprattutto non possono essere definiti come li definisci tu. Il vero rischio di Spaziozero, caro Antonello, è che, se lasciamo fare agli analisti (cioè a noi stessi), rischiamo di peggiorare di molto la nostra situazione attuale. La legge 56, per lo meno, è talmente pasticciata che è anche impossibile da rispettare. Se invece attribuissimo allo Stato una competenza sulle anime (poiché di questo si tratta quando si parla di psicoqualcosa), compiremmo un atto insopportabilmente autoritario. E, per dirla tutte, ho l'impressione che alcune posizioni, che sento esprimere in Spaziozero, sono appunto molto più autoritarie di quelle espresse dalla legge 56. Fra queste, purtroppo, devo mettere la tua, in quanto non solo ti riconosci il diritto di valutare, non so in base a quali evidenze, che cosa è etico e che cosa non lo è, ma concedi il diritto addirittura allo Stato; devo aggiungere quella di chi vorrebbe confezionare una bella facoltà di psicanalisi, dove imparare tutto su come si valutano gli atti altrui; e devo concludere con quella di chi crede, con un assolutismo statalista da far impallidire ogni positivismo giuridico di mezzo secolo fa che lo stato possa legiferare su qualunque cosa (è la tesi di Kelsen - che guarda caso scriveva anche su Imago - prima della guerra mondiale; ma poi s'è accorto che questo portava a certe conseguenze...). Come possiamo dimostrare che nessuna legge ha il diritto d'impedire a nessuno di parlare con qualcun altro (gratis o a pagamento sono affari loro, purché chi ci guadagna paghi le tasse) in base a presupposti teorici molto più autoritari di quelli, del resto inconsapevoli, che hanno portato a formulare la legge 56 nei termini che pure non ci piacciono? Ma - si dirà - la psicoterapia (o la psicanalisi) è una professione... E con questo? Le professioni, come fatti giuridici, non avevano certo bisogno d'essere regolate dalla legge 56, perché lo erano già perfettamente anche prima. Il problema, insomma, in Spaziozero (e figuriamoci altrove!), non è affatto solo psicanalitico, ma molto più generalmente culturale, perché non riusciamo a intenderci fra noi(e temo neppure quando siamo da soli con noi stessi) non solo sulla differenza fra concetti molto sfuggenti, come quelli di psicanalisi e psicoterapia, ma nemmeno su questioni molto più vaste e politicamente essenziali, come la relazione fra diritto e giustizia. Sull'ultimo punto, d'altra parte, quest'estate ho letto qualche libro, e ti posso assicurare che, dal 1945 in poi i filosofi del diritto non fanno altro che tentare di mandare a gambe per aria il positivismo giuridico che in Spaziozero crediamo essere assolutamente scontato ed evidente. Mais passons. Credo che potrò parlarne altrove (quella volta a Milano, quando ho parlato della responsabilità, era solo l'inizio). Per concludere, ritorno alla tua lettera. "Fornicare con le commissioni ministeriali" non è certo lo scopo di Spaziozero (e tanto meno il mio). Ma chiarirsi le idee su ciò che dobbiamo fare, invece, lo è sicuramente. La viltà che nella mia lettera aperta dicevo di temere non era certo la tua, né quella di nessun altro. Credo che il coraggio da avere non è sicuramente di metterci sullo stesso terreno dello Stato, ma di non farlo. Checché ne abbiano pensato o ne pensino ancora gli avvocati, il diritto non è semplicemente manifestazione del volere onnipotente dello Stato (come giustamente ricorda Galli, Hitler poteva pensarlo, ma noi no), perché in questo caso nulla potrebbe più distinguere il diritto dall'arbitrio e dalla tirannia. Come sapeva il vecchio Agostino, con grande scandalo degli avvocati, una legge ingiusta non è affatto una legge. E se esistono morale ed etica è perché la legge non può sapere tutto. Se lo abbiamo dimenticato, abbiamo dimenticato anche ciò che distingue la tradizione occidentale dall'ebraica e musulmana, che del resto fanno della legge la manifestazione diretta del volere di Dio. Ma che succede quando se ne fa la manifestazione diretta della volontà dello Stato? Ora, come dici tu, "la psicanalisi sopravviverà, forse, perché saprà riproporre la novità del suo discorso etico". Qui sono perfettamente d'accordo. È a questo che dobbiamo vigilare, non dimenticando mai la differenza fra etica, morale e diritto. Se lo dimentichiamo, potremo chiamare quel che facciamo in qualunque modo, ma resteremo sempre prigionieri dello stesso male e della stessa stupidità che ci crediamo in dovere di combattere. Con amicizia, Ettore
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