Settima parte di dieci parti (Vai alle parti 1, 2, 3, 4, 5, 6, 8, 9, 10) Da Perrella a Sciacchitano Padova, 18 settembre 1998 Caro Antonello, prima di tutto vorrei chiederti l'autorizzazione a pubblicare nel prossimo numero di Arché le tue lettere insieme alle mie, così come sono. Credo infatti che questo scambio d'idee effettivamente possa essere importante anche per altri. Vengo ora alla tua del 16 u.s. Che la psicanalisi possa essere "servaggia", come scrivi tu, è verissimo. Ma la psicoterapia lo è sempre? A questa domanda, se mi chiedi la mia opinione, rispondo subito che penso che lo sia quasi sempre. Ma un conto è credere questo, un altro è farne un principio generalizzante, che contrasterebbe con quello stabilito da Lacan, secondo cui l'esperienza della psicanalisi è inclusa interamente in quella dell'analizzante. Si tratta d'un principio essenziale, che basta da solo a demolire ogni criterio giuridico (vale a dire generale) di autorizzazione a operare come psicanalista, e che non vedo come e perché non debba essere esteso a ogni forma di psicoterapia (anche a quelle che trovo totalmente inaccettabili). Lacan ne trasse la conseguenza che fosse possibile solo il riconoscimento dell'avvenuta formazione, ma giunse poi al punto di dichiarare - nonostante la passe - che essa è reversibile. E allora chi e in nome di che cosa può dare anche questo riconoscimento? È per questo che, uscendo dalla SISEP [la Sezione Italiana della Scuola Europea di Psicanalisi], non ho fondato un'associazione psicanalitica(non ho mai pensato di farlo), ma una cosa che si chiama Accademia platonica delle Arti (!!!), della quale, certo, fanno parte degli analisti, ma nella quale nessuno ha nessun titolo che glielo attesti (nemmeno io). È una soluzione radicale, estremista, massimalista? Non lo so e non me ne importa niente: secondo me è l'unica possibile. Per questo non ho molta fiducia nell'eventualità di creare delle associazioni psicanalitiche, se queste continuassero a operare secondo i vecchi principi di assegnazione di titoli. È per questo che, quando tu dici che lo Stato ha diritto di "intervenire nell'allenamento dei muscoli cucullari dei suoi consiglieri", non penso proprio che questa tolleranza sia una virtù. Lo è per le idee degli altri, finché gli altri non cercano d'imporle a nessuno. Ma una psicoterapia "di Stato", se ci fosse (e per fortuna non siamo a questo punto...), non sarebbe affatto e per nessun motivo tollerabile, come non sarebbe tollerabile che una legge dello Stato m'imponesse d'andare a messa la domenica, o magari in moschea il venerdì. Tu invece, caro Antonello, con la tua bella tolleranza, dovresti tollerare anche questo, e anche che lo Stato mandasse al saponificio sei milioni di ebrei (per tornare sull'esempio dell'altra volta). In altri termini: tollerare l'intolleranza altrui (tanto più se l'altro è lo Stato stesso) che cos'è, se non inconsapevole ma, proprio per questo, anche più imperdonabile viltà? Quanto al servo e al padrone, mi permetto di ricordarti che in uno Stato democratico la sovranità - cioè la capacità di decidere sugli stati d'eccezione, come dice Schmitt (che nazista proprio non era)- è del popolo, vale a dire mia, tua e di tutti gli altri. Proprio tu, invece, trasformi lo Stato in un padrone, al quale attribuisci tutti i diritti. Ora, fare questo che cos'è? Il suo nome è idolatria, vale a dire la più grave delle colpe, perché tu attribuisci allo Stato i diritti che spettano solo al buon Dio (il quale per fortuna non ha mai emanato una legge sulle psicoterapie). Per questo ti rigiro la frittata: per quanto non ci tenga affatto a essere definito laico, "sotto l'influenza di qualche ignoto maleficio" non sono affatto io, ma se mai tutti coloro - e sono ahimè, anzi ahinoi, la schiacciante maggioranza - che non si accorgono della clamorosa contraddizione, in cui sono immersi, di scambiare per tolleranza un totalitarismo statalista in cui giuristi degni di questo nome non credono già da più di mezzo secolo(Schmitt dice già nel 1935 che lo Stato ha finito d'essere la forma politica fondamentale). Il brutto è che questo non è affatto un maleficio, ma l'effetto per niente ignoto, anzi banalissimo, della nostra disabitudine a pensare. Invece passiamo il tempo a gingillarci con i mezzi di comunicazione, senz'avere più nemmeno il sospetto che, mentre noi ci gingilliamo, una classe politica il cui livello culturale è ignobile, emette leggi e decreti confusi e pasticciati, che riconoscono solo criteri di potere, e trascurano totalmente ogni criterio giuridico. Disposizioni di questo genere sono certamente leggi dello Stato italiano, e quindi disobbedirvi porta in una posizione d'illegalità, ma questo non significa affatto che lo Stato operi legittimamente quando approva tali leggi. A questo punto nel diritto degli ultimi cinquant'anni si profilano due ipotesi: 1. una legge illegittima può essere trasgredita per motivi morali, ma il trasgressore resta giudiziariamente condannabile; 2. una legge illegittima deve essere mutata, perché non ha e non ha mai avuto nessun valore giuridico. La seconda tesi, che pare estrema, corrisponde tuttavia a criteri adottati in tutti i Paesi che abbiano una Costituzione, mentre in altri (Inghilterra, Stati Uniti e - anche se in modo più ridotto - in Germania), non occorre neppure rivolgersi alla Corte costituzionale, perché il giudice stesso può emettere delle sentenze contra legem). Detto questo, so bene che tu non sei vile, statalista e totalitario consapevolmente, tanto è vero che con la massima tranquillità passi dall'enunciazione di principi, che trovo davvero inconcepibili, a trarne conseguenze giustissime e ineccepibili, come quando riprendi Heidegger: "Noi siamo solo quello che abbiamo la forza di pretendere da noi". Questo è un principio etico, in base al quale ciascuno deve giudicare solo se stesso. Per questo, quando te ne dico di tutti i colori, e tu fai lo stesso con me, in realtà non ci stiamo affatto giudicando (e proprio questo è straordinario!).Per quanto mi riguarda, sto cercando solo di dimostrarti quali sono le conseguenze delle posizioni che a te paiono ineccepibili. Naturalmente posso sbagliarmi. Ma puoi sbagliarti anche tu. Vengo ora alla tua grande domanda finale: "siamo noi pentiti della psicanalisi?". Per quanto mi riguarda certamente no, se con il termine "psicanalisi" ci riferiamo all'intento fondamentale (etico e scientifico)di Freud e di tutti gli altri; ma francamente, se penso invece a ciò che la psicanalisi non cessa di divenire, devo dirti che mi sento mille miglia lontano da questa palude di stoltezza e di superficialità, che per di più si fregia dei distintivi dell'anima. Per quanto invece riguarda il problema del giudizio etico (davvero complesso),ti accludo un pezzo d'un testo che uscirà sul numero di Arché sull'anoressia. È solo un primo approccio al problema, ma spero che sarà sufficiente a darti un'idea approssimativa di come credo che si debba impostare. Intanto ti saluto, con affettuosa gratitudine: non solo per la tua "tolleranza", ma perché stiamo davvero scambiandoci delle idee (cosa che, con un confrère, mi è capitata prima d'ora solo molto raramente). Ettore
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