Sesta parte di dieci parti (Vai alle parti 1, 2, 3, 4, 5, 7, 8, 9, 10) Da Sciacchitano a Perrella Milano, 16 settembre 1997 Caro Ettore, credo anch'io che questo spazio epistolare sia prezioso, perché consente di esprimere posizioni difficilmente recepibili dalla carta stampata. Per esempio, quello che voglio dirti oggi, se dovessi pubblicarlo, dovrei iscriverlo sotto il titolo "Psicanalisi servaggia". Quale rivista, anche delle più tolleranti di Spaziozero, non me lo censurerebbe? Sì, non è un errore di battitura. La psicanalisi servaggia non è la psicanalisi alla romanesca. È la psicanalisi che chiama al servaggio, come afferma Lacan essere tipico delle scienze umane(in La science et la vérité parla del loro appel à la servitude, cfr. Écrits p. 859). Il massimo dell'appeal servile lo registro in quel deterioramento da praticoni delle scienze umane, ormai legalizzato come psicoterapia. È il caso di ricordare che il primo significato di terapéia è "servitù"? La psicoterapia è il discorso "ombra" del padrone. Mira a conformare il popolo sofferente agli ideali del padrone, promettendo che dopo staranno tutti bene. La psicoterapia, infatti, fa il bene - questo basterebbe a differenziarla dalla psicanalisi - ma non del singolo - come farisaicamente enuncia - bensì del padrone. La sua pratica non ha bisogno di molta formazione soggettiva: basta che il candidato impari a usare i muscoli cucullari (li chiamavano così gli anatomici di un tempo perché reggono il cucullus - la cuffia - dei bravi consiglieri, che sanno piegare la testa ai dettati del regnante). Fatta la breve premessa teorica, capisci facilmente, caro Ettore, che quel che sostengo a livello pratico e politico non può passare per statalismo. Affermo solo che è diritto dello Stato intervenire nell'allenamento dei muscoli cucullari dei suoi consiglieri... se vogliono diventare tali. Non è statalismo, questo. È tolleranza. Io, per me, non ci tengo a diventare consigliere di Stato. Quindi non mi interessa il cursus honorum che lo Stato promette ai suoi commessi. Appartengo a un discorso che è l'inverso del discorso del padrone e della sua ombra servile. La psicanalisi non può essere un "servaggio". La psicoterapia sì. Di conseguenza, la ribellione alla legge che regolamenta la psicoterapia mi sembra la misera ribellione del servo al padrone. Che tra gli Spartachi dell'insurrezione ci siano dei cattolici non mi stupisce. Rientra nella tradizione ottocentesca di ribellismo della Chiesa Cattolica allo Stato italiano. Ma che ci sia tu, pensatore laico, mi stupisce. O sei sotto l'influenza di qualche ignoto maleficio? Apprezzo la tua tirata d'orecchie. Il termine "morale" va rivalutato dagli analisti. Personalmente lo riservo al pacchetto di norme morali riconducibili all'attività legislativa del Super-Io. Ma il doveroso riconoscimento non basta. Bisognerebbe poi avere anche il coraggio di riconoscere che la "pretesa" (Anspruch) etica sta dalla parte dell'Es. Che è addirittura isomorfa alla pretesa pulsionale (in quanto costrutto linguistico, quindi altamente intellettuale). Il lavoro da fare per far passare questa posizione tra le resistenze dell'analista (la sua formazione è una resistenza ulteriore) è enorme. Occorre, in primo luogo, un lavoro intellettuale di riattivazione dei canali tra verità edetica. ("Verità etica" oggi suona come ossimoro, essendola prima relegata al piano noetico e la seconda a quello dianoetico). Occorre, in secondo luogo, indebolire il peso del Super-Io nelle nostre associazioni(eliminarlo non si può) e contemporaneamente ridare voce all'Es, che "non può dire quel che vuole" (L'Io e l'Es, ultime righe). La massima che mi guida alla soglia del giudizio - non al giudizio, qui hai ragione tu - è di Heidegger: "Noi siamo solo quello che abbiamo la forza di pretendere da noi" (Essenza della verità, commento al mito della caverna). Ma anche il lavoro pratico non è da meno. Si tratta di attivare tra noi legami sociali meno improntati al Super-Io e più all'Es. Più selvaggi, dunque? No, più attenti a ciò che ancora di non scritto palpita nell'inconscio di ciascuno. Dalla scrittura delle leggi non ancora scritte nasce il rilancio della psicanalisi. In proposito mi interessa moltissimo quanto hai da dire dell'inconscio come fatto sovraessenziale. Mi sembra utile per uscire da un certo neoplatonismo d'accatto a cui si abbeverano tutti i conformisti, a cominciare da certi travestiti da "scienziati umani" (magari con la tonaca nera del prete scomodo e ribelle o il camice bianco del medico cognitivista). Chissà, questo discorso si riallaccia per vie a me ancora ignote a quanto ho da dire sull'uno. L'uno che si disfa è l'uno in estensione. É l'uno della totalità buona. È l'uno che unifica le masse sociali. È l'uno che si disfa e va in frammenti con la psicanalisi. I frammenti sono i significanti: i quali sono uni che non si disfano - li chiamo convenzionalmente uni in intensione per differenziarli dall'uno in estensione o di massa. Sono loro che corrono per il mondo per cercare di aggregare altre masse (per identificazione, come affermava Freud) e unificare altri Eghi. Nella storia del movimento analitico i due tipi di uni si sono contrapposti in modo singolare. La mia visione di questa storia, elaborata insieme a Sergio Contardi, è semplice. Le scissioni del movimento analitico - tutte tranne una - sono avvenute in nome della psicoterapia. La quale a livello individuale propone la ricostituzione dell'unità immaginaria dell'Io come fine terapeutico e a livello sociale avanza ideali di adattamento e omeostasi civile. Con la psicoterapia siamo nel regno dell'uno in estensione, quello che si disfa. Allora vedi Adler contestare Freud perché non tiene conto dell'inferiorità d'organo; vedi Jung contestare Freud perché non tiene conto dell'energia psichica; vedi Fromm contestare Freud perché non tiene conto della dinamica dei fattori socioambientali. Tutti propongono di entrare nel sacco dell'uno attraverso la via del conformismo psicoterapico. Ma Freud ha sempre fatto orecchie da mercante al discorso servile. Non perché fosse un padrone (se lo fosse stato l'avrebbe apprezzato!), ma perché aveva qualcosa di nuovo che friggeva nella sua padellina - il significante psicanalisi, a cui era interessato più che alle convenzioni sociali. Morale: Freud è sempre andato per la sua strada, dietro all'uno in intensione, che gli sforzi del discorso scientifico non sono ancora riusciti a rimuovere: il significante psicanalisi, come ho detto. Dicevo di un'eccezione. Lacan produce la nuova e definitiva scissione nel movimento analitico - nel frattempo diventato movimento psicoterapicoin mano al conformismo ebraico targato International Psychoanalytic Associaton (IPA), imbiancato di scientificità- ma a rovescio, riproponendo niente di meno che la psicanalisi stessa. Non per nulla afferma di aver fatto ritorno a Freud. Con una differenza rispetto a Freud. Dopo Lacan, infatti, le scissioni non avvengono più in nome della psicoterapia ma di piccole differenze narcisistiche, sorrette da gentucca, andata in scena o come piccoli Lacan o come grandi lacaniani. In verità, Lacan ha portato tanto avanti la chiarificazione teorica della psicanalisi che non c'è scampo per i pusilli. Il rischio, infatti, è che dopo Lacan si possa essere solo pentiti della psicanalisi. Caro Ettore, siamo noi pentiti della psicanalisi? Con affetto e curiosità, Antonello P.S.: Mi interessa riprendere la tua tesi sull'impossibilità del giudizio etico in termini freudiani. Freud ha elaborato una vera e propria dottrina del giudizio in più punti: si va dal Progetto alla Metapsicologia (Inconscio) al Notes magico alla Negazione. Parto ab ovo, cioè dal Progetto (I, SS 16). Traduco: Il giudizio è un processo reso possibile dall'inibizione dell'Io e attivato dalla dissomiglianza tra investimento di desiderio di un ricordo e analogo investimento percettivo. Ne può sortire che la coincidenza dei due investimenti diventi un segnale biologico per porre fine all'attività di pensiero e dare corso alla scarica. Per contro la non coincidenza stimola il lavoro del pensiero, che termina di nuovo alla prossima coincidenza. Cosa vuol dire, allora? Che non si devono dare giudizi etici? Che in campo etico non si arriva mai all'atto? Che vale l'inibizione continua dell'Io? Sarebbe, allora, una vera e propria inibizione intellettuale, quella del giudizio etico, che non arriva a formularsi e non si "scarica" mai nell'atto. E perché? Perché c'è un difetto di percezione? Perché non c'è ricordo "etico"? Come l'intendi? Mi sembra che nella tua tesi ci sia qualcosa da salvare. Per esempio, che il giudizio etico non può essere adeguamento al dettato di una legge già scritta (legge giuridica). Ma come si arriva alla "scarica" freudiana? Una via potrebbe essere di ammettere che l'attività etica - per lo meno quella dell'analista - è come quella che si realizza in analisi: scrivendo - Heidegger direbbe: "portando al disvelamento" - le leggi finora non scritte, come quelle di antigonesca memoria. L'occasione può essere qualunque. Anche la legge 56 può essere l'occasione per scrivere novità etiche. Addirittura per forgiare nuovi legami sociali tra analisti. Come spero che avvenga tra noi.
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