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Dibattito tra Ettore Perrella e Antonello Sciacchitano
su psicoanalisi e psicoterapia:
un appassionato "litigio" tra due analisti lacaniani

Ottava parte di dieci parti

(Vai alle parti 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 9, 10)


Da Sciacchitano a Perrella

Milano, 22 settembre 1997

Caro Ettore, la tua argomentazione mi ha toccato. Mi ha inchiodato alla responsabilità ultima di noi tolleranti. Che, evangelicamente, cioè senza scampo, è di tollerare gli intolleranti. Certo, se domani, nello scenario da te prefigurato, si dovesse imporre una psicoterapia di Stato avrei la l'anoressica soddisfazione di dire che l'avevo detto: la verità della psicoterapia è di essere di Stato. Allora sarebbe troppo tardi per opporsi allo statalismo e non sarebbe gran viltà gettare le armi. Sarebbe doveroso riconoscere, però, che contro lo statalismo non ci siamo abbastanza battuti prima. Ti ripeto il mio modo di impegnarmi nella politica della psicanalisi, che ancora mi sembra tu non abbia pienamente riconosciuto. È un modo che secondarizza la pratica politica rispetto alla teoria, almeno finché ci resta un po' di tempo per pensare e non dobbiamo precipitarci, con il nemico alle porte, nell'azione. Perciò non mi agito come te contro una legge "pasticciata" ma, aggirando i fattori logici che producono leggi siffatte, tento di sorprendere il legislatore alle spalle.

Parlo, perciò, di indebolimento del binarismo. Il quale non è solo un bel programma intellettuale ma promette anche una certa efficacia pratica. Infatti, secondo me, le leggi che regolano il conformismo si battono non affrontandole direttamente ma mirando al cuore della loro matrice ideologica. Che da sempre è la dittatura della logica aristotelica per la quale il contrario del falso è il vero e il contrario del vero è il falso, con esclusione di ogni alternativa terza. Questa logica, in mano al potente di turno, stabilito rigidamente il principio di verità come adeguamento, giudica se la società si conforma ai suoi ideali o no. E se non si conforma sa cosa fare (in tale logica, come in ogni logica che si rispetti, il terzo c'è ma non si vede; in teoria è il metalinguaggio, in pratica il padrone). Certo, se la società conoscesse logiche meno dittatoriali della binaria... Ma anche alla società conviene conformarsi al potente. Per potersi fregiare del titolo di società del benessere.

Vedi, caro Ettore, credo che contro le pretese stataliste della legge 56 possiamo fare molto di più pubblicando il nostro peregrino epistolario che associandoci ai sindacati degli psicologi per difendere la loro causa di conformazione. Dopo tutto, non hanno bisogno del nostro piccolo aiuto. Né lo chiedono. Soprattutto non chiedono che con i nostri idealismi compromettiamo il loro commercio: il grosso affare delle scuole di conformazione psicoterapica. Per quanto mi consta tutti gli psicoterapeuti sono corsi a iscriversi al loro albo e altri spasimano per farlo. Degli analisti qualcuno (pochi) ha mostrato un ben comprensibile pudore a schierarsi sotto la bandiera che "chiama al servaggio". Ma, mi chiedo, perché questi pochi dovrebbero ostacolare i molti che coerentemente tendono a quel che la loro natura ha insegnato essere il Bene Supremo: l'assoggettamento, non all'inconscio, ma al discorso del padrone? È una sfida? Ma cosa c'entra la psicanalisi in questa sfida? Perché vuoi impegnare il buon nome della psicanalisi per impedire alla gente di raggiungere quel che crede il proprio bene? Perché bene non è? Ma loro non lo sanno. Lascia che si ingannino. O sei meno tollerante di me? Non tolleri l'ignoranza dell'altro? Io ci lavoro da venticinque anni, con (contro?) la volontà di non sapere. In analisi.

E vengo a note più dolenti: cosa ce ne facciamo di Spaziozero? Spaziozero è chiamato a prendere posizione politica, altrimenti scompare tra breve. Non sarà facile perché in questo movimento convivono tre anime teoriche che in qualche modo corrispondono a quelle platoniche: la vegetativa, l'animale e l'intellettuale. La vegetativa, fredda e meccanica, germoglia in Baldini, che vuole una psicanalisi scientifica, cioè senza soggetto, insegnabile in qualche università privata, da dirigere come rettore [vedi la replica di Franco Baldini riguardo a questo passaggio - N.d.R.]. L'anima animale, nobile e passionale, abita in chi crede che la psicanalisi sia il vertice ideale della psicoterapia. Per costoro, tra cui vedo aggirarsi la tua ombra inquieta, la verità della psicoterapia non è lo Stato, come ho già detto, ma la psicanalisi stessa. Ma è un abbaglio della loro passione politica. Che non sfugge all'analisi dell'anima intellettuale. Per la quale la psicanalisi è un impresa di riforma dell'intelletto. Senza altro scopo che portare il soggetto alla freudiana Urteilsverwerfung: l'operazione etica di revisione del giudizio sul desiderio rimosso. Un'operazione che difficilmente può rientrare nei programmi di conformazione psicoterapica, perché inutilizzabile dal potere.

A sostenere questa posizione teorica ed etica sono in pochi. Qualcuno però lo puoi trovare. Per esempio, nell'associazione psicanalitica nota come APLI, istituto per la formazione teorica permanente. So che non ami le associazioni di psicanalisti, e in molti casi non posso darti torto. O sono chiese burocratiche o bande mafiose. Se perdo il mio tempo con un'associazione psicanalitica, la ragione è che credo di poter uscire dalla logica binaria di conformazione dell'Io al Super-Io, di cui la storia ormai secolare del movimento analitico ci ha fatto assaggiare i grami frutti. Naturalmente non ho un programma ben definito in testa ma per impegnarmi nell'impresa politica mi bastano i pochi principi che ti ho accennato e alcune piccole realtà di riforma del legame sociale tra analisti. O Freud aveva in testa tutta la psicanalisi quando abbandonò l'ipnosi? (Ma aveva in testa l'IPA, purtroppo).

Sì, caro Ettore, abbandoniamo l'ipnosi della psicoterapia. Abbandoniamola al suo destino e riprendiamo la strada di Freud. È intellettualmente più stimolante e come causa politica anche più appagante. Ciao, ciao, Antonello.

P.S.: Per la pubblicazione di questo epistolario su Arché non ho nulla in contrario, se tu mi autorizzi a pubblicarlo su Scibbolet 5 nella rubrica Spaziozero. Lo pubblicherei con pochi tagli, tanto per conservare l'impronta della contingenza, che in analisi è sempre benvenuta, essendo il marchio del fallo.

P.P. S.: Forse non sai che chi ti scrive è un esemplare, in Italia forse più unico che raro, degli sciagurati che, vivendo ancora Lacan, fece una passe presso l'allora rinomata EFP (prima della dissolution, intendo). Un fallimento come tanti, essendo stata la vicenda interamente condotta all'insegna dell'identificazione al sintomo di Lacan. Il quale, attraverso la passe, non chiedeva al mondo nient'altro che il riconoscimento improprio del suo insegnamento. Io fui forzato dallo stesso Lacan a tentare l'impresa. (Sarà stato l'esito micidiale di allora che mi sconsiglia tuttora di istituire una passe nella mia associazione).

Il lungo preambolo per introdurre la domanda che, alla fine della passe, con una certa sorpresa mi sentii porre da uno dei passeur, regolarmente estratti a sorte: "Da cosa si riconosce un analista?" Ai tempi, frastornato com'ero dall'intersecarsi di transfert diversi e poco omogenei - sull'analista, sui passeur, sul maestro - non seppi rispondere. Non perché non disponessi della risposta esatta ma perché mancavo ancora del coraggio morale per darne una mia. A vent'anni di distanza quel coraggio me lo sono dato, costruendolo pezzo a pezzo. Oggi direi che un analista si riconosce dal fatto che tenta l'impossibile. Come ogni buon test, la condizione è ovviamente necessaria ma non sufficiente: conosco buoni filosofi che tentano l'impossibile ma non sono analisti. Superfluo dire che con loro mi trovo bene a collaborare. Doppiamente superfluo aggiungere che tra loro non trovi uno psicoterapeuta a pagarlo a peso d'oro.


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